E quindi, quasi involontariamente, assai fiaccamente, corono il sogno (ormai da tempo sopito) di vedere i Radiohead dal vivo, tanto amati in tarda gioventù, quanto lasciati al loro destino negli ultimi anni. In ogni caso, il miglior gruppo rock del momento. Leggerete sicuramente migliori e maggiormente dettagliate recensioni della mia, che è una di quelle che butto giù di getto con tanto sentimento, di quelle che garbano tanto a me, ma che fanno tanto cagare a tanti altri. Se non avete voglia di perdere tempo, procedete quindi oltre: fra quelli che vi diranno che è stata un'esperienza indimenticabile e quelli che sosterranno che si è trattata di una cagata pazzesca, perché i Radiohead hanno avuto l'infausta idea di incentrare quest'ultimo loro tour sui brani degli ultimi due album (di merda, forse), tralasciando gli hittoni che hanno decretato la loro fama (che bastardi ingrati, irrispettosi dei loro fan, a non fare “Paranoid Android”! ecc), mi faccio avanti con uno sproloquio, a tratti incoerente, spesso trascurato, sempre e comunque prolisso, volutamente animato da una animalesca incompetenza, che ai più non dirà nulla. Scusate quindi se mi permetto di occupare il “suolo pubblico”.

Scusate.

Puntuali come un orologio svizzero i Radiohead si presentano sul palco alle 21:30, dopo che le luci si erano spente un attimo, per poi riaccendersi. I Nostri entrano pacatamente sul palco. Thom Yorke ha la barba e i pochi capelli sono legati in un fetido codino, indossa una camicia di merda, sembra ridotto male come Tibet dei Current 93 (e dentro di me rido). Il palco è un bel vedere, si capisce che siamo di fronte a dei professionisti, probabilmente i migliori in circolazione: palco gigantesco, miliardi di strumenti disseminati sulla sua superficie, cinque micro-schermi in alto che nel corso del concerto riprodurranno dettagli dei cinque musicisti mentre suonano, altri cinque schermi sospesi che cambieranno lentamente e continuamente posizione, su uno sfondo di luci che compongono un mosaico di figure geometriche in continua evoluzione. Tutto molto giusto, si capisce, alla faccia del rock banale dei mega-schermi....e che i Radiohead siano vittime di loro stessi? I coerenti artefici della loro dissoluzione?

Parte una base elettronica, poi gli strumenti si uniscono uno ad uno, a partire dal fenomenale batterismo del batterista che per tutto il concerto, con precisione metronomica riprodurrà i contro-tempi di un'elettronica nervosa ed anche un po' funky, sarà per i bassoni in evidenza. Suoni perfetti, la voce c'è, è reale, una parvenza di emozione scorre lungo la mia spina dorsale. Il pezzo, che non conosco e che probabilmente è la prima traccia di “The King of Limbs” (che ho ascoltato nel dormiveglia una sola volta, una volta in aereo) infine mi piace. Yorke canta e suona la chitarra, e fondamentalmente costituisce l'anima umana, suonata dei Radiohead. Gli altri rifiniscono, chi alle percussioni (addirittura in tre ai tamburi, ad un certo punto), chi suonando altri arnesi. e quindi: un concerto di classe, seppur un po' freddo, ma è indubbio che:

1) Abbiamo a che fare con dei professionisti;

2) Abbiamo a che fare con gente che ha un successo strepitoso, ma che non rinuncia alla propria ricerca.

Ho l'impressione però che i Radiohead stasera assomiglino un po' troppo ai Liars, quelli di “Drum's not Dead”, loro discepoli in fin dei conti: forti basi percussive, suoni scarni, la voce stridula di Yorke. Nei contesti ritmati, però, non capisco perché Yorke si ostini a cantare alla sua maniera, non potrebbe andare di vocoder e vaffanculo? O meglio: perchè i Radiohead non fanno musica strumentale? (Probabilmente perché assomiglierebbero troppo ad Aphex Twin, nda). Non che Yorke deluda, capiamoci, solo stucca dopo un po', con le sue nenie che stavano meglio nel rock di “Ok Computer”, e infatti nelle lente guadagna punti, a tratti facendo anche meglio che su disco, a volte aiutato dal controcanto di qualcun altro del gruppo, facendo trapelare quell'anima insana, dolente, ottenebrante, presente nei dischi di mezzo (ci sarà un motivo per cui i nostri sono diventati il manifesto del disagio giovanile, o no?), ma che avevo francamente dimenticato.

Si alternano i pezzi dell'ultimo album, di “In Rainbows” e di “Hail to the Thief”, tutto in maniera molto omogenea, forse un esercizio freddo, ma sicuramente gestito in modo professionale, e i suoni puliti permettono di percepire finezze che non ti aspetteresti dal vivo. Una traccia minore come “The Gloaming” è paradossalmente l'apice di questa prima ora che tuttavia a lungo andare un po' mi tedia. Infatti, picchia e ripicchia, fra beat elettronici e Yorke che, o imbraccia la chitarra, o si dimena come uno scemo sorridente (ballicchiando, un po' goffamente, un po' come Tibet – e continuo a ridere dentro di me), ho le stesse sensazioni che i Radiohead mi danno su disco più o meno da “Amnesiac” in poi: li apprezzo sì, con la ragione, ma non mi emozionano.

Pare che non ci sia stato momento, durante il concerto, in cui non abbia riflettuto sui Radiohead e sul loro senso nella storia della musica, nel tentativo di trovare nuove definizioni e quantificare l'importanza di questa band nella storia della musica (innegabile, questa importanza, a loro in fin dei conti dobbiamo tutti gli anni zero). Pare che Yorke di diverta e con questa consapevolezza mi pare di giungere ad una prima conclusione importante: i Radiohead sono molti diversi, non solo da quelli di “The Bends”, ma anche da quelli di “Ok Computer” e, ve la dico tutta, anche da quelli di “Kid A”. E allora, mi dico, giustificandoli: sono dei grandi, sono cambiati, sono una band in continua evoluzione, perché devono fare un concerto di hit che oramai rappresentano un passato che gli non gli appartiene più?

Ma quando mi sembra di aver individuato la chiave di lettura dei Radiohead che al momento mi si parano a qualche centinaia di metri di distanza, attacca inaspettatamente “Karma Police” (ma non dovevano evitare i classici?). Ovviamente son contento, poiché finalmente trovo un senso per me stesso, un senso per me che sono a vedere i Radiohead che fino a quel momento non mi pareva di conoscere o di non aver ascoltato mai, io che li ho amati a cavallo fra novanta e duemila. Son contento perché metto la mia degna bandierina: proprio ora che iniziavo ad accettare il fatto di non poter assistere ad alcun classico della band, posso finalmente dire al figlio (che ancora non ho) di aver visto dal vivo “Karma Police”. Il pubblico si rianima, anche perché fino ad adesso gli astanti non potevano agitarsi, poiché questo non è un concerto rock, e non potevi cantare, poiché qui non c'è musica da cantare: una scena surreale, una folla immensa, immobile, come se fossimo in venti ad un pub a vedere Anthony & the Jonsons”, tutti fermi, ad ascoltare, attenti, ad applaudire timidamente quando necessario, detto per inciso: il pubblico dei Radiohead non è sguaiato, appare come un mare quieto, una massa informe di persone normali, persone comuni, forse accomunate dal dettaglio nel vestiario o dalla montatura spessa degli occhiali, e sostanzialmente priva di emozioni (e qui apro una parentesi: il pubblico dei Radiohead è molto giovane, pochi sono gli over trentacinque, pochissimi gli over quaranta, come se i Radiohead fossero i rappresentanti universali del male del giovane, ma poi, quando uno cresce, varca i trenta diciamo, è come se perdesse interesse, si disaffezionasse alla band, mentre i Radiohead continuano a rinnovare il loro vasto pubblico con le nuove generazioni, in un ricambio che li porterà sicuramente alla pensione).

Con “Karma Police”, si diceva, si accendono i primi accendini (o cellulari?). la gente si mette a cantare, i goffi cori del pubblico sul ritornello bastano a rendere ilare la situazione. Si percepisce, con Yorke dietro al pianoforte, il sapore dell'evento, eppure ho quasi l'impressione che “Karma Police” (e me ne rendo conto solo adesso) sia infine una canzonetta. Sarà quel tocco beatlesiano a disturbarmi, tanto che il pezzo mi puzza tanto di puerilità. Gli acuti di Yorke sono comunque da pelle d'oca, il finale ri-arrangiato con chitarra acustica e i cori del pubblico portati avanti ad oltranza sono in definitiva molto suggestivi. Potrebbe essere l'inizio di un grande concerto, tutto sommato, ma ecco che subito si riattacca con pezzi i pezzi più recenti che evidentemente non sono in grado di reggere il climax emotivo portato da “Karma Police”, interrompendo così il flusso, la comunicazione fra pubblico e band (per certi aspetti un bene, dato che il tipo dietro di me, che non canta nemmeno male, ma che è un bastardo che la mia vista non sopporta quando mi giro, che mi fa vomitare, che odio e disprezzo, ma soprattutto odio, mi ha cantato nelle orecchie tutto il tempo, fino ad un momento prima). Ancora elettronica, quindi, però poi attacca “Idioteque” e in effetti mi emoziono. Poi ciao, fine della prima parte, il gruppo se ne va.

Il gruppo rientra, suona la prima di “Ok Computer” ma qualcosa si è rotto in me (avevo nel frattempo perso la mia buona posizione perché decisi infaustamente di raggiungere la mia ragazza che si era messa un attimo a sedere sul prato, fuori dalla folla, non trovandola fra l'altro, ma trovando che “Airbag” adesso ci sta come il cavolo a merenda, e dire che non mi era mai dispiaciuta come canzone): ma perché i Radiohead fanno ancora rock? Non si vergognano? Forse Garm canta ancora black metal? Una lunga introduzione di sintetizzatore apre quella che io ritengo una delle mie canzoni preferite, “How to Disappear Completely”, che dal vivo rende molto bene: un momento di suggestione quasi pinkfloydiana, ma mi pare oramai di aver perso la giusta concentrazione, continuo a vagare in cerca della mia donna, e così durante la canzone esco nuovamente dalla folla per cercarla, non trovandola, tanto che mentre i Radiohead suonano la mia canzone preferita dei Radiohead mi ritrovo nella tenda della Croce Rossa per vedere se pesco la deceparecida, che fra l'altro non mi rispondeva al telefono. Cerco in qualche modo di ri-interessarmi del concerto, ma da quel momento in poi, perduta la posizione favorevole per assistere all'evento, l'evento stesso mi passa in secondo piano ed in fondo non me ne frega più un cazzo, vorrei essere a casa dormire, visto che il giorno dopo devo essere a lavoro. Mi aggiro a caso fra gli stand, con i Radiohead di sottofondo, un occhio sul palco, un occhio sperso nella folla....Yorke annuncia una “old song” e poi parte un'inutile canzone pescata da “the Bends” di cui non ho nemmeno voglia di riandarmi a cercare il titolo, tanto sapete qual è, ed è inutile che vi dica che non mi dice un cazzo (eppure in “The Bends” ci sono bei pezzi), che anzi stona troppo con il mood del concerto.”Ma perché?” mi chiedevo mentre passeggiavo e fumavo, “perché?”.

Insomma, fra bis e tris, tornano i brani più recenti che però, come su disco, non mi esaltano, mi lasciano insensibile, finché Yorke si fa portare un mega affare che poi dovrebbe essere un mastodontico vocoder o qualcosa del genere, dice "arrivederci" con voce robotica ed echeggiante, e dopo un'introduzione pseudo ambientale, parte quello che rimarrà il momento più bello della serata: “Everything in its Right Place”, però ri-arrangiata su tonalità meno minimali e più techno, un capolavoro che mi dà emozioni incredibili (forse perché mi ricorda gli Anathema?) e a questo punto mi domando se forse forse i Radiohead non abbiano fatto che un disco fondamentale, veramente fondamentale, per la storia della musica, e che quel disco è “Kid A”.

(Per la cronaca: la mi donna stava bene, si era solo messa a sedere per riposarsi, non poteva mandarmi sms perché aveva finito il credito sul cell, ma aveva dei minuti gratis per le chiamate, e così ci siamo ritrovati davanti a cessi, amandoci e continuando ad amarci come prima).

Finito il concerto, scopro oramai di non avere più energie: so' stanco, dopo due ore e un quarto di concerto in piedi (o che signori s'era quando si vedeva il Marione “The Black” Di Donato all'Albatross di Genova? In teatro? Al buio? Birre imboscate in borsa e poltroncine e il cesso a portata di mano?), con la prospettiva di una camminata di un'ora nella folla per uscire da quel cazzo di Parco delle 'Ascine, raggiungere la macchina, per poi marcire nel traffico di Firenze e guidare fino a casa.

E guido verso il letto ascoltando il Gira (ah, l'ultimo degli Swans), e mentre guido sono rilassato, non so ancora dire se il concerto mi sia piaciuto o meno, però la macchina va nella notte, e ripenso a quanto sono invecchiato, io che appena qualche anno prima facevo da solo quella strada di merda ogni venerdì sera per vedere i gruppi più inutili al Viper o, peggio ancora, il sabato per vedere i Congressi Post-Industriali al Siddartha...ripenso a quanto faticai una sera, ubriaco, con la pioggia che dio la mandava giù, ed ascoltavo Gira, e Gira, per pura coincidenza, è ancora lì che mi devasta nel ritorno, a tratti carezzevole, a tratte insostenibile, come solo lui sa fare...

Vabbè, tiriamo due o tre conclusioni a cazzo:

1) Non ho ancora capito se i Radiohead mi siano piaciuti. Appena avevo iniziato, con fatica, ad apprezzare la coerenza della più grande rock band dei nostri giorni nel voler suonare 2012 a tutti i costi, in culo ai fan e al loro passato ed agli hittoni, sono arrivati poi gli hittoni a guastar le feste. Il fatto è che i Radiohead sembrano due gruppi diversi, quelli del periodo prima di “Ok Computer” (compreso) e quelli da “Amnesiac” (compreso) in poi. Queste due anime non mi pare che siano state amalgamate bene stasera, tanto che a questo punto avrei volentieri rinunciato ai pezzi di “Ok Computer (due) e di “The Bends” (uno). Ho però capito che in mezzo a “Ok Computer” e “Amnesiac” c'è stato un evento irripetibile nella storia dei Radiohead e nella storia della musica in generale, e che quel momento si chiama “Kid A”. Solo per questo, bisognerebbe ringraziare i Radiohead a vita.

2) Non capisco nulla anche perché per me è stata un'esperienza straniante vedere una musica ricercata, quasi da clubbino, in un contesto da "stadio" (anche se poi s'era in un parco), cosa che in effetti non avevo mai provato. Permane l'impressione di aver visto la più grande band dei nostri anni, ma raramente ho avuto l'impressione di assistere alla storia della musica, cosa che invece mi era capitata con i grandi Kraftwerk. Nella loro evoluzione i Radiohead mi sono sembrati un gruppo intelligente, motivato e in definitiva onesto, che però non si merita la folla oceanica che si in fondo in fondo si aspetta i loro classici. Durante i classici, tuttavia, i Radiohead mi sono sembrati vecchi e stantii, come se in fin dei conti questa gran musica i Radiohead non l'avessero mai fatta. Ma soprattutto mi è parso che loro stessi non ci credessero più di tanto, quasi mi parevano la cover band di loro stessi. Meglio allora vederli convinti nel fare le cose nuove, anche se poi a me queste cose nuove non interessano più di tanto: si apprezzano le costruzioni cervellotiche e le finezze in sede di arrangiamento, ma devo dire di non essermi emozionato un granché. Forse non sono più capace di emozionarmi.

3) Non ho quindi più voglia di grandi eventi. Forse non ho più voglia di musica dal vivo, non ho più voglia di spendere i soldi e macinare i km, di stare due ore in piedi, ma spero di ricredermi. Sono stanco, adesso voglio tornare a casa. E non nego che la fine del concerto sia stata per me come il sospirato triplice fischio che chiama a conclusione un match che si è arenato in un sostanziale pareggio: un po' di pensieri, un po' di fatica, un po' di menata che hanno costituito il giusto bilanciamento ad una buona bandierina piantata sul curriculum. Una bandierina che però si tinge amaramente della consapevolezza che non mi sono divertito. Magari adesso, e fra qualche giorno, sono e sarò contento di essere comunque andato (meglio essersi lasciati, che non essersi mai incontrati, no?), ma mentirei se dicessi che, in quell'esatto momento, mi sono divertito.

E in fin dei conti solo il presente conta.

Buonanotte a tutti.

Scusate.

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