La veduta su Firenze, da Piazzale Michelangelo, è emozionante. Sono le 19.45 e mi chiedo se Thom Yorke e soci siano consapevoli di quanto un contesto di tale valore possa elevare le attese del pubblico. Circa 4 ore più tardi avrò la mia conferma: consapevoli o meno, anche i Radiohead sanno emozionare. Il palco è un grande cubo e il primo a entrare è Jonny Greenwood. Quale sarà il primo strumento che userà? Chitarra? Laptop? Piano? Qualche strana scatoletta? Niente di tutto questo.
Jonny inizia percuotendo due tamburi (così come Ed O’Brien) mentre Thom schitarra e canta There There, dopo averci salutato con un ridicolo sorriso che fa subito prevedere una serata generosa. Dalla prima all’ultima canzone (la 23esima!) i Radiohead sfoggiano dal vivo un impasto musicale sublime ma anche la sensazione di essere pur sempre cinque ragazzi che ci provano (e ci riescono molto bene). Sensazione strana e piacevole, considerato che è un concerto all’aperto da migliaia di spettatori. Anche se Jonny spesso si dimentica strada facendo diverse note (2+2=5), il contrasto tra le sue invenzioni approssimative e anarchiche (vedi Lucky dove sposta gli accenti degli assoli) e l’estrema, incredibile precisione del divertito fratello Colin al basso è forse l’essenza della performance del gruppo. Insieme alla bravura di Thom, ovviamente: nei pezzi più intimisti incanta con la sua voce spettacolare (Pyramid Song e soprattutto Sail To The Moon, la cui interpretazione annoterei come la cosa più bella della serata), in quelli più elettronici con un’intensa presenza scenica da folletto stralunato e trascinante come in Idiotéque e Myxomatosis. Proprio quest’ultima è una delle sorprese più piacevoli, con quello strano riff a dominare l’atmosfera gelida creata dalle luci azzurrine e dai toni bassi della voce lievemente effettata di Thom. Il perfetto Phil Selway è presenza discreta, non altrettanto lo sono i volumi delle sue basi e della sua batteria, che si impongono forse troppo violentemente. Se c’è qualcosa che mi lascia perplesso, infatti, è proprio l’invadenza della sezione ritmica: per apprezzare gli scatti di Jonny devo quasi sempre tendere l’orecchio; le chitarre di Ed O’Brien non le sento proprio. Peccato, perché ogni qual volta questo gioco di volumi viene infranto l’aria che si respira è di quelle davvero inebrianti, grazie ai riff taglienti di I Might Be Wrong, al muro di chitarre nelle ultime strofe di Fake Plastic Trees o ai suoni assurdi che Jonny tira fuori dalla sua Telecaster alla fine di The Gloaming, che chiude la prima parte del concerto. I nostri rientrano ben due volte, chiamati fuori a gran voce dalla folla tra le cui onde fluttuo esaltato. Karma Police è la conclusione: ideale, perché tira fuori dal pubblico gli ultimi fili di voce e le ultime emozioni. p.s. 5 stelle anche se non mi hanno fatto né Exit Music né A Wolf At The Door né We Suck Young Blood.
Ecco la setlist: There There, 2+2=5, Morning Bell, Lucky, Scatterbrain, The National Anthem, Backdrifts, Sail To The Moon, I Might Be Wrong, Fake Plastic Trees, Myxomatosys, Where I End And You Begin, Pyramid Song, A Punchup At A Wedding, Paranoid Android, Idiotéque, Everything In Its Right Place, The Gloaming - - - Go To Sleep, Just, Like Spinning Plates - - - Sit Down. Stand Up, Karma Police.
Un cenno meritano i Low: il loro slowcore certamente non è adatto a farsi apprezzare dal vivo (“we’re a very quiet band…”), ma i tre mostrano buone idee; la voce del frontman – lieve e profonda al contempo – sembra fatta apposta per le loro melodie tristi.
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