È talmente palese che questo ventennale sanziona definitivamente la classicità di un disco che era un classico già poco dopo la sua uscita, talmente chiara la volontà anche da parte della band, che è tra le meno auto celebrative di sempre, è tutto talmente ovvio che non mi soffermerò su questi aspetti. Ci hanno già pensato le riviste: Pitchfork ad esempio è mesi che incensa questo disco con speciali vari, non c’è bisogno di aggiungere altro.
Parliamo di dettagli: mi fanno sorridere quelli che di fronte a una rimasterizzazione gridano al miracolo, come se prima le canzoni fossero dei guazzabugli indistinguibili. Ascoltando queste nuove versioni non ho però potuto fare a meno di notare il lavoro di Godrich, che anche con A Moon Shaped Pool aveva fatto davvero bene. Sarà in parte una suggestione, ma i brani mi sembrano tutti più vividi, più ricchi, più tridimensionali. L’impasto sonoro è più nitido, per quanto già quello del 1997 fosse buonissimo. Ma qui si lavora di fino. Il discorso è sottile, è una dialettica con l’ascoltatore esperto, che conosce molto bene le versioni originali. C’è Nigel che ti dice: «Avevi notato gli archi di Airbag? Senti che belli, senti come si mescolano bene con la chitarra distorta». Insomma, io ho avuto l’impressione di scoprire meglio tutto un sottobosco sonoro che in passato non avevo apprezzato così tanto. I suoni in secondo piano riescono a ottenere la loro parte di gloria insieme alle parti principali: Godrich mette a frutto le abilità già mostrate nel disco dello scorso anno. Un OK Computer con la ricchezza della produzione sopraffina di Moon Shaped. E anche la prima versione non era propriamente un disco grossolano, era anche quello pieno di dettagli. Eppure qui si va ancor più in profondità.
Subterranean è ancora più psichedelica, con suoni riverberati che intrappolano l’ascoltatore. Exit Music è ancor più aliena nella prima parte e magniloquente nella seconda: un crescendo che sa ancora più d’opera. Let Down si fa apprezzare meglio per i suoi scampanellii e tutto il gioco di risposte in eco che suggeriscono la frenesia alienata del vivere contemporaneo. Ho riscoperto persino Fitter Happier ed Electioneering: la prima per i giochi un po’ krautrock in sottofondo, la seconda per la floridezza delle distorsioni, ed è un brano che ho sempre trovato fuori dal coro.
Il lavoro di Godrich diventa impressionante con brani già magnificamente prodotti e che fanno della ricchezza produttiva un loro asso nella manica: Climbing Up the Walls sembrerebbe impossibile da migliorare. Invece vengono alla luce filigrane ulteriori, grida e vocalizzi che magari prima si perdevano nell’impasto, veli sonori leggerissimi ma che garantiscono il piacere della riscoperta. Anche Lucky, con le sue chitarre riverberate, sembrerebbe impossibile da migliorare. In effetti in questo caso la differenza non è così ampia, ma qualcosa in più c’è. Anche il finale di The Tourist è un godimento, con una migliore distinzione dei diversi suoni.
La riflessione è questa: un disco così amato ed elogiato aveva dell’altro da offrire. Una simile complessità degli arrangiamenti deve far riflettere ulteriormente sul significato del cambio di rotta dato da Kid A, che a mio modo di vedere lavora essenzialmente per sottrazione.
Parlando poi dei tre brani inediti, penso che I Promise sia un piccolo capolavoro: la semplicità della linea melodica e della ritmica, che comunque sono efficacissime e longeve, non deve distrarre troppo dalla sapiente architettura di archi che fa da sfondo. Ma questa riedizione è proprio la celebrazione del dettaglio, dell’importanza degli sfondi appena pennellati. Man of War mi sembra solo confermare la cifra più rockeggiante che la band ha deciso di mettere da parte: ciò che è stato tagliato non fa che rendere ancor più importante e coerente la scelta presa per i suono e il mood del disco del 1997. E i rami sfrondati sono tutt’altro che secchi. Pezzi di prima qualità. Per non parlare di Lift: la band ha dichiarato di non averla pubblicata per evitare di avere un successo troppo grande. E allora OK Computer si illumina ulteriormente perché frutto di scelte anche dolorose, recisioni gravi.
Sulle altre b-sides, già presenti nei singoli e note al pubblico, devo ammettere di non averle mai approfondite per conto mio in questi anni. Forse ho fatto bene, dato che ora avrò un ulteriore disco da godermi tutto insieme e pure rimasterizzato. La sensazione è che le modalità siano coerenti con lo stile dell’epoca OK cpu, ma senza l’urgenza comunicativa e l’efficacia dei brani che poi sono finiti sul disco vero e proprio. Tracce beatlesiane in Polyethylene, che francamente nessuna band al mondo avrebbe lasciato fuori da un disco. Pazzesca anche Pearly. Palo Alto avrebbe trascinato interi dischi, di altre band.
È questa una delle evidenze di OKNOTOK: quanto ben di dio musicale è stato sacrificato in favore di una visione più nitida, secca, senza ridondanze? Non lo capiscono quelli che si lamentano del fatto che ad esempio nell’ultimo lavoro ci sia True Love Waits, come se i nostri avessero problemi di fertilità creativa. No, quel brano aveva senso in quel disco, a sanzionare la fine di un amore. Come questi hanno senso oggi, dopo vent’anni, per testimoniare che oltre al concept, oltre a quelle 12 canzoni perfette e perfettamente coese, c’era tanto altro che è stato messo da parte.
(A margine, una considerazione personale. Ho ascoltato questo disco da ragazzino: più che apprezzarlo, ha formato i miei gusti musicali. Poi non l’ho più ascoltato. Adesso, tra il concerto a Monza e questa riedizione, lo sto riaffrontando. E lo posso valutare dopo 13 anni in cui ho raffinato i miei gusti e l’orecchio. Non avevo capito quanto bello fosse, in realtà. L’avevo fatto mio acriticamente. Ora invece capisco i valori musicali e i contenuti che veicola. Per dire, il punto di vista alieno sugli esseri umani, il lavoro che lentamente ti uccide, la mania del turista per la velocità ma l’assenza di una meta, la fine della fortuna che anticipa un po’ l’era glaciale, le ali che spuntano per fuggire da un mondo devastato dalle linee ipertrofiche dei trasporti.
Musicalmente questo disco è la sezione aurea del rock. Non si può fare di meglio. Lo capisco del tutto solo adesso. E allora è chiaro il detour di Kid A eccetera. Un tira e molla tra l’ossessione per la perfezione qui incarnata e la necessità di trovare una variazione, un diversivo, una nuova via. E i dischi successivi continuano con questa dialettica, più o meno. In Rainbows e Moon Shaped sono variazioni di questa sezione aurea, in mezzo il figlio mongoloide King of Limbs. Hail to the Thief contempera bellezza e rigurgiti elettronici, in un momento di caos dominato dalla politica e dal crepuscolo. Senza quegli sfoghi, senza Feral, non ci sarebbe stato Moon Shaped: è il fuoco che brucia e riduce tutto in cenere. La cenere poi fertilizza il terreno e da lì spuntano sogni ad occhi aperti come Daydreaming).
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