Non doveva finire così. Quella volta lì, che ti sei trovato inaspettatamente per terra. Con la faccia nel fango di un’umiliazione senza pari. Te la ricordi bene, vero? Ne senti ancora l’odore: non fare lo stronzo sforzandoti di negarlo. E’ inutile pure che ti metta a scrollare le spalle; minimizzando e fingendoti più duro e forte di quanto tu realmente sia. Sei patetico. Ti ha lasciato il segno. Indelebile. Gli anni saranno anche passati, non lo nego, e come tanti strati di terra avranno pure nascosto e ben sedimentato quel giorno in un angoletto della tua mente. Ma basta un soffio, un innocente soffio nel punto giusto e, voitlà, tornerà prepotente la voglia di poter avere la possibilità di rimettere tutto a posto. Te lo costruiresti con spago e fantasia il flussocanalizzatore per tonare indietro nel tempo. Si chiama riscatto ed è di questo che ci vuole parlare Radu Mihaileanu nella sua nuova opera "Il Concerto".
Una commedia agro-dolce che parla di amicizia e menzogna a fin di bene. Una pellicola ben lavorata ed eterogenea: dai contorni volutamente esagerati e fiabeschi, ma anche con punte di sagace satira e malinconia nella sua fotografia dei personaggi divisi tra la nobile Francia e la decaduta Madre Russia.
Era l’apice della sua carriera, con il teatro pieno in ogni ordine di posti. Il concerto per violino di Cajkovskij per quella che lui stesso definisce, muovendo la mano immaginando di stringere ancora la bacchetta, la nobile ricerca della "melodia assoluta". Giorno di tripudio doveva essere, ed invece il concerto venne meschinamente interrotto: la sua carriera irrimediabilmente spezzata.
A distanza di 30 anni è oramai una foglia secca, che avvizzisce lentamente nell‘anonimo arrabattarsi quotidiano di una Russia nella quale i comizi vengono riempiti con militanti a pagamento. Inaspettata, giunge dalla lingua cartacea di un moderno fax una flebile possibilità di rivalsa. Una tentazione che afferra avido e non tenta nemmeno di sedare con oggettiva, fredda e razionale analisi. Sta a lui, adesso, prendere a spallate quel flebile pertugio ed ingrandirlo: renderlo realtà architettando una gigantesca truffa a fin di bene per poter riprendere, con gli interessi, quanto stato ingiustamente tolto.
Ridiamo di gusto per gran parte del film. Con ritmo elevato, ben sottolineato dalla musica etnica e folcloristica, viene ricostruita pezzo dopo pezzo la sua orchestra di un tempo. Una possente armata Brancaleone che andrà alla conquista dei 2.000 posti del teatro parigino Chatelet. Diventa spassosa la ricerca dei musicisti perduti che oramai si sono dovuti reinventare un lavoro e vivono in un contesto utopista, nostalgico ed incasinato dove vecchio regime e situazione post caduta muro di Berlino si mescolano più volte per dare alla luce scene grottesche di sicura presa.
Quando questo indomabile elefante variopinto ed eterogeneo fatto di stereotipati commercianti ebrei, rom di strada e vecchi militanti dell’utopista partito viene finalmente portato nella delicata Francia, rischia più volte di distruggere ogni sogno di rivalsa.
Ed è proprio qui che il film cambia marcia.
Quando sembra oramai condannato ad incastrarsi in uno stretto vicolo cieco, che altre vie di fuga non può lasciare aperte se non quella di uno sterile happy ending esagerato, emerge prepotente la passione incondizionata per la musica. Si gioca con la grande espressività della preziosa Melanie Laurent e di Aleksei Guskov. Si rallenta e l’ilarità, che aveva caratterizzato la descrizione della goffa e disastrata orchestra, sparisce per lasciare spazio a brevi ma intensi momenti drammatici nei quali passato e presente si intrecciano inaspettatamente.
Vengono raccontanti con un sapiente fare agro-dolce fino al passionale concerto conclusivo. Fotografato con estrema dovizia e phatos con oltre dieci minuti senza interruzioni di sorta tra archetti, dita inquiete e lacrime. Che sia, o meno, la scena più lunga dedicata ad un concerto nella storia del cinema è un reale piacere lasciarsi affondare nella poltrona; con il suono delle casse pronto a deliziarci con le melodie potenti e trascinanti di Cajkovskij fino ai titoli di coda. Indeciso tra i due voti, propendo per quello maggiore che forse non vale completamente. Ma va bene così.
Ilfreddo
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