N.Y.C. Anno 2000 , "l'hi-tech virtuoso" Randy Brecker come viene chiamato il nostro artista offre un prodotto al mercato che riuscirà ad acaparrarsi non solo il consenso della scena jazz, ma bensì anche amanti e simpatizzanti di rock, jazz rock, funk jazz, pop funk, pop jazz. L'eclettico trombettista che non ama lavorare dentro al genere, ma ai confini con i generi per poi plasmarli tra loro, da vita a "Hangin' in the City" registrazione di spessore che contiene tutta la freschezza che mancava oramai da tempo nel movimento jazzistico della grande mela.
Concentrandosi ora sul disco vero e proprio diciamo in primis, che questa chicca dai temi jazzfunk con melodie robuste e corpose riesce a incatenare già dal primo ascolto anche i più scettici scivolando in consistenti timbriche funk con campionature e suoni synth molto ricercati grazie allo zampino di George Whitty, che oltre aver mixato e registrato il disco si mette all'opera con keyboards e drum programming. Scoprendo le voci invece si contrassegna il debutto di "Randroid" una specie di alter-ego dell'artista, adattato a un nickname che canta e colpisce con pensieri della sua lifestyle... in poche parole urbano, sensuale e pappone (vedi copertina).
Un bel groove che non perde mai di mordente dall'inzio alla fine, tra gli ospiti incontriamo sezioni ritmiche d'eccellenza con Don Alias alle percussioni "I Talk to the Trees" e Chris Minh Doky al basso acustico ed elettrico "Wayne Out", "Pastoral", "I Been Through This Before", i fraseggi di sax tenore suonati da Michael Brecker, fratello minore di Randy, (mancato purtroppo il 14 gennaio scorso... ehem... che mi sembrava giusto ricordare) evidenziano l'avvicinamento alle alte tecnologie e a visioni musicali d'avanguardia.
Non sono in ombra neppure le chitarre, anzi diciamo che in passerella sfilano Adam Rogers, Dean Brown, Joe Caro e Hiram Bullok (quest'ultimo anche nella parte di background vocals). Altri due nomi per concludere il quadro, Will Lee e Richard Bona al basso un Joe Locke al vibrafono e ancora alle voci Mike Harvey e Katreese Barnes. Un totale di 11 danzanti traccie di cui solamente 4 strumentali a dare forma e disegno a questo bel disco che difficilmente entrerà a far parte dei classici luoghi comuni del jazz.
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