Una luce studiata e sintetica lascia intravedere - dietro a una tapparella - lo statuario corpo di Kim Basinger che improvvisa (?) uno spogliarello da soubrette navigata, il tutto sotto gli occhi di un Mickey Rourke eccitato e divertito: è la sequenza-chiave del tormentone drammatico-erotico targato anni Ottanta, "9 ½ Weeks". Una pellicola che - a scapito della sua mediocrità - è riuscita a condizionare l'immaginario erotico di ben più di una generazione, per indubbio merito di un commento musicale - quella "You Can Leave Your Hat On" magistralmente urlata dal 'mad dog' Joe Cocker - talmente azzeccato da essere tuttora tra i 'favorites' di innumerevoli spettacoli da night. È strano pensare che quel diabolico motivo fosse scaturito molti anni prima - ben 15 per l'esattezza - dalla penna di un buffo ometto occhialuto che pochi conoscono (e farebbero molta fatica a ricondurre alla sfera sensuale) ma che nel tempo ha lasciato il segno più di altri artisti.

Il successo commerciale non ha mai arriso Randy Newman, neanche quando la sua formula sembrava poter avere tutte le carte in regola per ottenerlo: uno strano incrocio tra l'Elton John più lirico (quello dei capolavori 1970-1973, per intendersi - non certo il baronetto che scialacqua il suo talento compositivo in melensaggini pop da palato greve) e il Billy Joel più sincopato; con una strizzatina d'occhio al musical e, perché no, a certa tradizione folk. Ma, si sa, anche in musica l'occhio vuole la sua parte, e un silenzioso e discreto talento cede spesso il passo ai vari fenomeni da baraccone. Così anche un disco bellissimo come "Sail Away" (1971) - che comprende la versione originale della sopra citata canzone-manifesto, nella sua primitiva forma più lenta e più sofferta - passa inosservato alle masse: ed è davvero un peccato veniale non concedersi l'inusitata dolcezza di perle come la title-track o "God's Song (That's Why I Love Mankind)".

Dopo quell'opera, però, Randy di amici se ne era fatti tanti, e molti saranno più che contenti di accompagnarlo nelle sue bizzarre esplorazioni socio-musicali. Tra le quali svetta l'ironico e tagliente sberleffo di "Little Criminals" (1977), che concederà a Randy l'unico vero riscontro di classifica e quindici minuti di paradossale e mistificata celebrità. "Short people" infatti - nata come feroce e divertente attacco alla 'betise' umana - verrà, in modo davvero poco lungimirante, stigmatizzata da chi in essa intravedeva solo la denigrazione delle persone di piccola statura. Come se poi lo stesso Randy fosse il gigante della montagna. Fortunatamente, la frivola vicenda si chiuderà là dove si apre un disco che per varietà compositiva e gustoso 'understament' è quasi grande. Si scivola con facilità dai fiati lenti e buffi - quasi un mimo della camminata del protagonista - in "You Can't Fool The Fat Man" al robusto pop-rock con venature R'n'B della title-track, da gemme pop come il singolo dello scandalo e "Jolly Coppers On Parade" alle tenere effusioni liriche di "I'll Be Home" e "Old Man On The Farm", fino al grandioso mid-tempo di "Kathleen". I cori degli amici Eagles giocano quasi meglio fuori casa che in casa chiamati a ricamare il delizioso 'divertissement' dal gusto parodico in "Rider In The Rain" o a commuovere nella strepitosa "Baltimore". E se qualcuno ancora non avesse capito con che tipo di mente sta avendo a che fare, un'occhiata ai nomi di certe tracce può certo essere di aiuto ("Texas Girl At The Funeral Of Her Father", "Sigmund Freud's Impersonation Of Albert Einstein In America" - tanto folli e logorroici i titoli quanto immediati e poco cerebrali i pezzi).

Figlio del cuore come della testa, buffo e acuto come il suo creatore, variegato e composito come poche opere del suo periodo - "Little Criminals" è ispirato da una saggezza e compiutezza melodica che sarebbe ingiusto lasciarsi sfuggire. Food for thought.

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