L’ebreo/losangelino Randy Newman ha il merito di essere un grandissimo compositore e paroliere, ma la contemporanea sfiga di avere una voce, e una faccia, da artista di nicchia, un poco nerd. In America è considerato uno dei grandissimi e ha ricevuto riconoscimenti di ogni tipo. Qui in Italia, quando viene una volta ogni tanto, lo vanno a vedere in duecento.
Anche perché il rock è una componente assai secondaria della sua musica. Il suo “pop” pacato, ironico fino al corrosivo, depresso o divertente, arrangiato con orchestra o affidato ai soli piano e voce, deve molto di più ai maestri neri del rhythm & blues nonché ai grandi compositori di colonne sonore, che a Beatles e derivati.
Insomma, la sua musica sa sovente di “vecchio”, di anni cinquanta se non quaranta. Non è spettacolare né potente, tantomeno ruffiana. Però è arguta, personale, profonda, e talvolta irresistibile melodicamente e/o poeticamente. Ne sanno qualcosa la folta schiera di coverizzatori suoi (Three Dog Night, Joe Cocker, Beth Hart, Ray Charles(!), Ry Cooder, Nina Simone, Tom Jones, Marshall Tucker Band…) i quali, aggiungendo voci e personalità e carisma adeguati agli ingegnosi spartiti da lui creati, hanno ben dato sostegno alle loro carriere…e di riflesso pure al di lui conto in banca.
Questo è il terzo album di carriera, siamo nei primi anni settanta con Newman già quasi trentenne. In stile Lucio Battisti (od anche Elton John) di quegli stessi tempi o poco prima, diverse delle canzoni presenti erano già uscite sul mercato interpretate da colleghi. Randy le recupera e ve ne aggiunge altre, fra cui quella che intitola il disco e che è responsabile del definitivo decollo della sua carriera.
“Sail Away” il brano è una amarissima messa in musica dell’ipocrisia di un negriero che esorta dei nativi a salire a bordo e lasciare giungla, tigri e leoni per attraversare con lui l’oceano e giungere in America, dove “ogni uomo è libero di prendersi cura della sua casa e famiglia”, e dove ”tutti sono più che felici”.
“You Can leave Your Hat On”, messa per penultima in scaletta in stile “Yesterday” sull’album “Help” dei Beatles, è il plasticissimo esempio di quanto possono agire sulla riuscita di una canzone l’arrangiamento, l’interpretazione, la scenarizzazione e la diffusione capillare tramite un film di successo. Nessuno si poteva immaginare, nel 1972, che questo pezzo in un futuro ancora lontano sarebbe diventato l’epitome assoluta e senza rivali di uno spogliarello. In questa versione originale la voce dimessa di Newman, il riff rock blues eseguito da anonime chitarre invece che dalla poderosa sezione fiati… niente qui può essere collegato al corpo di quella magnifica donna (e attrice) a nome Kim Basinger che si offre alla contemplazione del tizio del film e di tutti noi attaccati allo schermo.
E queste sono le due celebrità dell’album. Sul resto preferisco sorvolare perché il tutto è molto meno immediato e distinguibile e ci sarebbe da farla lunga sui testi, causando un’espansione abnorme della recensione.
Con Randy Newman, il Woody Allen dei cantautori, o lo si apprezza o ci si annoia. Non è per tutti i giorni, ma è un grande. Fra i grandi solisti americani insieme a Joni Mitchell, Paul Simon, David Baerwald, Billy Joel, Bruce Cockburn, Dan Fogelberg (a mio gusto, s’intende).
Indispensabile associare al suo ascolto la lettura delle liriche, sempre incisive, componente essenziale dell’eccellenza di Randy Newman.
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