Sciolti i Big Black nel 1987, il cantante/chitarrista Steve Albini assolda la formidabile sezione ritmica dei texani Scratch Acid (la batteria di Ray Washam e il basso di David Sims) e dà vita al progetto Rapeman, una delle massime espressioni del rock underground americano di tutti i tempi.
L’opera di questo imprescindibile power-trio di Chicago consta di un EP (“Budd”, 1988) e di un LP (“Two Nuns And A Pack Mule, 1989”). Quest’ultimo è uno dei lavori capitali del suo tempo: assieme ai vari “Skag Heaven”, “You’re living all over me”, “Doolittle”, “Daydream Nation”, “No Control”, “Umber” e tante altre preziose (e spesso misconosciute) opere di fine 80’s, “Two nuns” ha contribuito a traghettare il rock alternativo dagli anni '80 agli anni '90, dall’hardcore al post-rock (intesi non specificamente come generi, ma genericamente come epoche). In virtù di una non comune capacità riflessiva, di un’attitudine a rielaborare in chiave intellettuale materie assai plasmabili come l’hardcore e il noise (due linguaggi divenuti ormai “classici” a fine anni '80), di una preparazione tecnica difficile da trascurare e, soprattutto, di un’ispirazione più che rara, “Two Nuns And A Pack Mule” va annoverato tra i capolavori del cosiddetto post-hardcore.
Rispetto alla precedente esperienza di Albini, i Rapeman presentano almeno due differenze macroscopiche: una a livello di sezione ritmica, l’altra a livello di sezione armonica. Da un lato, il dinamismo, la potenza, la versatilità, la sfrontatezza, la creatività, l’imprevedibilità della coppia Washam/Sims permette ad Albini di comporre ciò che, con l’implacabile e meccanica drum-machine dell’era Big Black, non gli era stato possibile; dall’altro, mentre la presenza di due chitarre nell’organico dei Big Black era all’origine del sound estrememante denso di quella band, ora Albini si ritrova solo, con la sua chitarra proverbialmente scordata, acida, stridula, sadica, isterica e il risultato è un suono più scarnificato.
Albini non ha mai abbracciato i rigorosi dettami dell’hardcore old-school, cercando sin dagli inizi una via espressiva personale, introversa, sofferta, intellettuale, sofisticata, ripegata su se stessa. Tuttavia, alcuni brani dei Big Black (“Jordan Minnesota”, “Stinking Drunk”, “Bazooka Joe”) si configuravano come veri e propri “assalti frontali”, all’insegna di una violenza per nulla meditata. Pressochè nulla di tutto ciò è rimasto nei Rapeman, in cui i ritmi si fanno quasi sempre più cadenzati, strascicati, sincopati, criptici, pur essendo spesso soggetti ad improvvise sfuriate e a devastanti scosse telluriche. Ma questa intellettualizzazione dell’hardcore non va certo intesa come un suo addomesticamento o, peggio, come un puro divertissement fine a se stesso (come invece accade in tanto cerebrale math-rock anni '90): la musica di Albini resta estremamente comunicativa, viscerale, capace anche di colpire al cuore, nonostante le mostruose deformazioni (o forse proprio per questo). I brani dei Rapeman sono infini brillanti esempi di minimalismo rock, per la loro capacità di dedurre architetture e impasti armonici tra i più complessi ed arditi da una strumentazione ridotta all’osso (tre strumenti, zero sovraincisioni) e facendo leva su espedienti spesso mutuati, come vedremo, dal rock più canonico.
L’incipit è subito capolavoro: “Steak And Black Onions” è il brano più “indie” del disco, quello più perversamente orecchiabile, quello più disteso, dove il tappeto di feedback steso da Albini pare sfidare le sfilacciature di un Mascis e il registro vocale, sofferto e sfinito, fa pensare subito a Cobain. “Monobrow” è forse il pezzo forte dell’album, una delle massime espressioni del concetto albiniano di “non-canzone rock”: di solito, nel noise-rock, il tema di chitarra si scompone e si degrada in dissonanza nel corso del brano (vedi: Sonic Youth); qui, invece, il motivo (vagamente e surrealisticamente orientaleggiante) parte già disintegrato e si viene a formare gradualmente prima di deflagrare in un terremoto di percussioni e in un uragano di basso distorto: a fare da straniante intermezzo a questa mostruosa piece cacofonica, interviene una ritmica grottescamente ballabile in cui si sovrappongono languidi e indolenti gemiti di chitarra. Geniale, a dir poco. Poi arriva “Up Beat”, il brano più tirato: canto spasmodico e chitarra triturata, una “Stinking Drunk” compressa, frustrata, decomposta, assolutamente ostile ad ogni forma di catarsi. “Coition Ignition Mission” è una selva di velenose radiazioni, che si apre sporadicamente a squarci di straziante drammaticità. “Kim Gordon’s Painties” è il brano più sarcastico dei tutta la carriera albiniana, una vera e proprio parodia del noise-pop di certi Sonic Youth dell’età matura. In “Hated Chinee”, Albini supera se stesso, sia come cantante sia come chitarrista, raggiungendo ineguagliati picchi di ferocia e stridore, mentre la sezione ritmica reitera, imperterrita, un’andatura intermittente che farà scuola. “Radar Love Lizard” è un’inesausta centrifuga ritmica, mentre “Marmoset” si qualifica come il vertice di complessità strutturale dell’intero disco. Poi arriva la cover che non ti aspetti: “Just Got Paid” degli ZZ Top! L’interpretazione che ne offrono i Rapeman è da antologia: della serie, “come mostrare il subconscio del southern-rock”. In questa memorabile cover, in cui la band si ritaglia lo spazio per un’altra scintillante, spiazzante, surreale digressione dub, viene fuori tutta l’anima segretamente redneck, barbara, primitivista, di un nerd da metropoli come Steve Albini. Chiude “Trouser Minnow”, brano formalmente importante per il post-rock, con la sua struttura elastica, la sua rabbia repressa, sempre in procinto di esplodere, fino alla devastazone del refrain.
I Jesus Lizard ripartiranno dalle conquiste di questo disco. Gli Shellac, con “Action Park”, proporranno una versione “asciugata” di questo impareggiabile capolavoro. Più in generale, tutti coloro che negli anni '90 hanno giocato la carta di un noise-rock tanto essenziale nei presupposti, quanto stravagante nelle soluzioni, hanno dovuto fare i conti con le mille intuizioni di questo disco.
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