L'autoreferenzialità della civiltà occidentale ha la pretesa, e forsanche la presunzione, di consegnare alla storia Ravi Shankar per aver introdotto George Harrison prima, e i figli dei fiori poi, al fascino ed ai segreti del sitar e della musica indostana.
Quello che l'occidente sembra ignorare è che, oltre ad essere un musicista incredibilmente dotato, Ravi Shankar sia stato, e sia tuttora, un grandissimo interprete e compositore, maestro indiscusso nell'arte dell'improvvisazione e profondo conoscitore di innumerevoli raga, capace - con buona pace di Scaruffi - di uno dei massimi capolavori della musica del Novecento: "Three Ragas".

Cresciuto nell'India di dominazione britannica, Ravi ha fin dalla tenerissima età la possibilità di calcare il palcoscenico e girare il mondo, facendo anch'egli parte della compagnia di danza e musica del fratello maggiore Uday, della quale il polistrumentista Ustad Allauddin Khan rappresentava all'epoca l'attrazione principale. Quando la sua carriera di danzatore sembrava ormai avviata però, lo scoppio del conflitto mondiale nel vecchio continente, che di fatto impediva alla compagnia ogni trasferta, portò Ravi Shankar a proseguire la propria formazione musicale a Maihar, uno sperduto villaggio dell'India più fanatica e religiosa, sotto la guida dello stesso Allauddin Khan, che diverrà il suo guru e che in sette lunghi anni di insegnamenti svelerà al giovane i segreti del sitar e la vera essenza del raga.

La tradizione musicale classica indostana infatti è prettamente orale, e non basata sulla semiografia come invece accade nella musica classica occidentale. Fra le tante divergenze strutturali e formali fra due mondi apparentemente antitetici però, l'essenza stessa del raga è forse, per un occidentale, il concetto di più difficile assimilazione. Spesso equivocato come semplice scala ascendente e discendente, il raga è la proiezione del proprio spirito interiore attraverso lo strumento, è la manifestazione del respiro della vita dell'artista, in cui l'essenza stessa dell'universo si riflette. Analogamente al concetto di Kama Sutra, nasce dall'armoniosa unione tra uomo (il ritmo) e donna (la melodia), e per questo il sitar ne è lo strumento per eccellenza, essendo delle sei (o sette) corde, tre destinate all'accompagnamento ritmico, e le restanti tre (o quattro) all'intarsio della melodia.
Nella cultura indostana il raga è una disciplina spirituale di ricerca del significato ultimo, una via per raggiungere Dio. L'improvvisazione alla base di ogni raga perciò non è mai fine a sé stessa ma sempre rivolta verso la profondità del proprio io interiore, e questa ne fa una delle differenze sostanziali rispetto al jazz.
Solo dopo anni di intensa pratica e disciplina (sadhana), e sotto la supervisione del proprio guru, l'artista è in grado di infondere il prana (respiro della vita) nella sua musica, ragion per cui questa tradizione viene tramandata fin dalla notte dei tempi solo e soltanto oralmente.

Queste premesse forniscono gli strumenti di fondo per avvicinarsi all'ascolto di un capolavoro di questa portata. L'esperienza maturata da Shankar nella vecchia Europa, dove il sitar veniva considerato uno strumento "bizzarro" dalla timbrica "esotica", e la sua ascetica e a tratti fanatica preparazione musicale, portarono Ravi nel 1956 alla concezione di questo album quale compendio essenziale della musica classica indostana. È importante sottolineare infatti come i tre raga scelti ("Raga Ahir Bhairav", "Raga Simhendramadhyamam" e "Raga Jog"), appartengano alle tre differenti famiglie melodiche (tra cui il ceppo Carnatico del sud dell'India), e simboleggino tre distinte fasi del giorno. In particolare il lato B del vinile, la chilometrica "Raga Jog", uno dei più diffusi e praticati raga della notte, rappresenta, dall'alto dei suoi ventotto minuti, l'apice indiscusso e inarrivabile della sua intera produzione musicale, nonché uno dei momenti più esaltanti e spiritualmente elevati della musica dell'intero Novecento. Basato sulla scala pentatonica classica con l'aggiunta di una nota cromatica, e per questo profondamente legato ai canoni del blues, "Raga Jog" si sviluppa secondo tradizione in alap, jor gat e jhala, accompagnato dalla tabla di Chatur Lal e dalla tamboura di Prodjot Sen, sbalordendo per la capacità di Ravi nel creare tensione, sorpresa e ogni sorta di climax mediante l'improvvisazione su una singola linea melodica. Il suo sitar è fluido, a tratti lirico, sempre intenso ed inebriante. Un'esperienza musicale e spirituale conivolgente e sconvolgente allo stesso tempo. Semplicemente immenso.

L'autoreferenzialità della civiltà occidentale, perché qualcosa venga presa seriamente in considerazione, ha bisogno di paragoni, classifiche, che tutto venga riportato su scale di valori assoluti, per quanto ridicole e inattendibili spesso risultino. In quest'ottica "Three Ragas", con la sua aura di spiritualità, con la sua snervante tensione verso l'infinito, rappresenta il "A Love Supreme" della civiltà orientale, anche se forse sarebbe più corretto affermare l'esatto contrario, e non soltanto per motivi cronologici. John Coltrane infatti rimase affascinato in tempi non sospetti dalla musica modale di Ravi Shankar e dalla forza spirituale che il suo sitar sprigionava nell'improvvisazione dei raga. L'incontro fra i due avvenne nel 1964, poco prima della registrazione di "A Love Supreme" e prima del famoso incontro con George Harrison. A colpire Shankar fu l'anima tormentata di Coltrane, che stava faticosamente cercando il senso di pace e di armonia che regnava in "Three Ragas", e che troverà soltanto in un amore supremo (non a casa darà al terzo figlio il nome di Ravi Coltrane).

Eppure l'autoreferenzialità della civiltà occidentale odia le nozioni e, perché il messaggio arrivi, o perlomeno si stampi in maniera duratura nel subconscio, si nutre di slogan brevi e di facile presa. Per questo vi dico che "Three Ragas" è la migliore scopata che il vostro cervello potrà mai fare con la vostra anima. Più chiaro di così...

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