Sulla bellissima copertina del loro ultimo live due pingui vacche bianche e nere si ingroppano in qualche pascolo appenzellese, sotto l’emblematico titolo “Made In Switzerland” . Svizzera, esatto. Ma stavolta non c’entrano i meravigliosi corni delle Alpi, e nemmeno inquietanti esseri della specie nota come Dj Bobo. Questa volta si parla di hard rock.
I Gotthard (che a ben vedere è un nome geniale nella sua scontatezza – per chi non lo sapesse il San Gottardo è un massiccio montuoso con annesso fondamentale traforo) nascono nel 1990 a Lugano - ormai anche mia città natale, ma questo forse non c’entra. Gotthard… chiariamolo subito, ho cominciato ad ascoltare qualcosa per curiosità, una parola buona da amici, fors’anche questa musicalmente esotica provenienza (che però fu anche di un certo Patrick Moraz, non dimentichiamocelo). Il resto lo ha fatto un poster, che da anni e anni vedo appeso in un’osteria a Lamone - quella col fulmine per non dirne il nome - “Dal vivo ai Campi Elisi, Gotthard a Parigi” … però, mica male. Mi sa che son bravi, in fondo. Così, pensai. Tutt’ora non sono un conoscitore profondo di loro, innegabile perciò qualche ricerca in rete per nomi e chissà cos’altro, però ciò che ho ascoltato e che vedrò di commentare di mia sponte, a sensazioni, non delude, no. Davvero niente male, porca vacca (ci stava, dai). Certo, potrebbe essere più sensato recensire i primi album, quelli in cui in genere i gruppi han più da dire, quelli in cui il cuore magari non è ancora affiancato dal mestiere, ma tant’è (nonostante la copertina molto… beh, bruttina).
In realtà succede infatti che proprio con “Lipservice” venga tralasciata in parte la dolcezza intrapresa nei lavori precedenti, per un ritorno ad un hard rock più energico e vicino a quello degli esordi. Melodia e dolcezza che comunque spesso permeano i brani degli elvetici, noti anche per le struggenti ballate (ne sono esempi le belle “Heaven” e “One Life One Soul”), tali da convincere la casa discografica a pubblicarne una raccolta, che ricordo anni fa in bell'evidenza in un grande magazzino a Lugano, segno tangibile del loro successo in patria.
Uscito nel 2005, “Lipservice” è dunque l’ultimo album di inediti in ordine di tempo dei nostri. La prima traccia, “All We Are”, lascia già intravedere quanto vasto sia il bagaglio di questi ragazzi. Secco intro del batterista, Hena Habegger, melodici fraseggi delle chitarre (suonate da Leo Leoni e, in seconda, Freddy Scerer, in sostituzione del membro storico Mandy Meier) e attacco della oggettivamente bella voce di Steve Lee (completa Marc Lynn al basso). Altri trascinanti esempi di hard rock si hanno in brani come la bella “Anytime Anywhere”, bel riff e canto incalzante, “Cupid Arrow” (molto chitarristica, come tutta l’ opera, del resto) e la breve ed intensissima “Lift U Up”, oppur’anche in “Stay For The Night”, che sa di hard rock che fu. Per gli elvetici spesso si sono scomodati paragoni con mostri sacri, chi li vuole eredi dei Def Leppard, chi li vuole ispirati dai Deep Purple, vero è che sono una bellissima realtà odierna, misconosciuta nei nostri (ricordo che sono italiano, dopotutto) confini. Sulla stessa falsariga hard, la violenta “I’m Alive”, “Said And Done” (quasi robotica nelle chitarre, interessante) e la un po’ ruffiana “The Other Side Of Me”, di bell’effetto comunque, specie per l’assolo.
Ma melodia, si diceva, e allora ecco due brani trascinanti, probabili perni in uno dei loro roboanti show (trattasi di band di cui si narra un gran bene all’ opera sul palco, se capiterà un salto ce lo faccio, ah sì sì): la prima è la trascinante “Dream On”, davvero notevole. E poi “I Wonder”, gran arrangiamento e ritornello maledettamente impressionabile in mente. Un accenno come detto alle ballate: “I’ve Seen An Angel Cry” (in cui compare una tastiera, wow) e, perché no, "Everything I Want" (che mi dà un vago sentore di Bryan Adams non solo nel titolo) sono due esempi di hard ballad, incedenti e precise, ottimamente interpretate e supportate da chitarre sempre incisive. Belle schitarrate acustiche aprono invece “Nothing Left At All”, bellissimo brano dalle linee melodiche non da poco. L’album è chiuso dalla delicata “And Then Goodbye”, voce (stupenda) e chitarra: struggente. E 14. Ce l’ho fatta.
Bellissimo album, dunque; bravissimi interpreti ed una nazione che (giustamente) li venera. La mia recensione forse indegna (un fan è un’ altra cosa, in fondo) vuole essere un omaggio ad una band e, perché no, ad un paese che ha saputo darmi tanto. Dedicato a mia madre, che una piccola parte del cuore l’ha lasciata aldilà del Gottardo.
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