Anche io avevo ascoltato i Pink Floyd da piccolo, ma con l’indifferenza e l’ignoranza che accomuna i giovani d’oggi non ero andato oltre.
Ricordo che quella sera d’autunno dalla mia finestra si poteva scorgere il sole tramontare e l’aria era fresca: decisi in tutta tranquillità di distendermi un’oretta e rilassarmi in compagnia della musica, e fin qui restavo ancora nella normalità; ero del tutto inconsapevole che stavo per affrontare un viaggio unico, forse mai neanche sognato, che mi avrebbe fatto aprire gli occhi sulla musica (e non solo) che conta.
Eh sì, perchè la prima volta che ascolti “The Dark Side Of The Moon” non te la scordi, il segno che lascia è indelebile, come i rimurgini di un trip ti ripresentano visioni anche alla lunga nel tempo così quel “Ticking away…” può avvolgerti con prismi e fasci di luce anche al milionesimo ascolto.
Ma, tornando nella mia stanza, la scelta del cd da inserire fu del tutto casuale: forse fu quella copertina con quel triangolo su sfondo nero che magneticamente si impossessò di me, fatto sta che inserii quel disco e da allora…bè, posso ben dire che da allora la mia vita è cambiata.
Rinacqui come una fenice e intrapresi il volo.
Ero appena entrato nel sistema “Pink Floyd”, o meglio, ne ero stato catturato.
Ascoltai il cd tre volte di fila, testi alla mano, e di lì lo avrei ascoltato ogni giorno per non so quanti mesi, impegnandomi nel frattempo a procurarmi l’intera discografia per cercare di capire chi fossero realmente i Pink Floyd, questi “embrioni evanescenti degli incendi cosmici a venire, arabeschi cromatici per l'affresco del sabba universale”, come il noto storico musicale Scaruffi li definisce.
Col senno di poi ho quindi capito che con questo disco il maturamento artistico dei Pink Floyd si era concretizzato, pervenendo ad una finissima levigazione del sound, grazie anche al giovane ma abilissimo ingegnere del suono Alan Parsons, che tra l’altro aveva lavorato già con i Beatles per “Abbey Road” nel ’69.
“The Dark Side Of The Moon” viene pubblicato per la EMI il 24 febbraio del 1973. La mente creativa di Roger Waters non ha confini e la realizzazione di questo apocalittico concept album la si deve per gran parte a lui (è duro ammetterlo per me che sono un “gilmouriano”).
Il filo conduttore è riconoscibile sin dal titolo delle canzoni: la voce, il respiro, la corsa verso il tempo, la musica, il danaro, la malattia, la fine, insomma il percorso della vita umana, fatta di paure e pazzie.
Il manto sonoro vellutato che avvolge le nove tracce è qualcosa di ammaliante, anche grazie agli effetti sonori inseriti con una maestria chirurgica, come è ben evidente sin dall’inizio del disco, con la ballata di apertura “Speak to me-Breathe in the air”.
La cavalcata di Mason in “On the run” introduce ai momenti più belli del disco: prima irrompono le campane di “Time” ad anticipare il canto deciso e l’assolo debordante di Gilmour capaci di lasciare senza fiato, poi il tappeto sonoro tessuto da Richard Wright va ad accompagnare il superbo volo vocale della corista Clare Torry in “The great gig in the sky”, ed è inevitabile il richiamo al grido onirico di Gilmour nel finale di “A saucerful of secret”.
Segue la watersiana “Money”, da evidenziare se non altro per il giro di basso più famoso del rock e per il trascinante intervento al sax di Dick Parry, anche se il pezzo, composto da Waters in un solo giorno, pecca di ripetitività e nel complesso risulta il meno riuscito nel disco.
“Us and them” e l’appropriata continuazione “Any color you like” invece, sottolineano il perfetto equilibrio compositivo di Wright, e vanno a trovare posto in un contesto spazio-temporale bidimensionale, imprescindibile dalle paranoie di cui sono pervasi.
“Brain Damage”, zeppa di riferimenti a Barrett, è invece la dimostrazione di come un pezzo che ripete sempre lo stesso tempo può essere (allo stesso tempo) toccante, se di marchio floydiano.
La conclusiva “Eclipse” appare come uno sfogo, e va a sbatterci in faccia la fugacità dei momenti reali e il substrato di difficoltà al quale è ancorata la nostra vita, e il tutto è pessimisticamente accentuato dal commento finale: “There is no dark side of the moon, really; matter of fact, it’s all dark”; infine il battito cardiaco, che va a ricollegarsi alla traccia iniziale come in ogni concept che si rispetti.
Tirando le somme, “The Dark Side Of The Moon” non è il miglior album presente nella discografia dei Pink Floyd, tuttavia certamente il più compatto e rifinito, a tal punto da ridefinire il concetto artistico di “estetica”. Passaggi obbligati per la definizione finale di un sound così inconfondibile sono stati i precedenti album “Ummagumma” e “Atom Heart Mother”, preponderanti dimostrazioni di inventiva più che di innovazione, frutti della creatività di una band davvero ben coesa, che hanno fornito le basi appropriate ai fini della realizzazione di un disco di una completezza tale.
Agli inizi del terzo millennio “The Dark Side Of The Moon” gode di una freschezza e di un’attualità stupefacenti, sebbene la sua pubblicazione risalga a ben 33 anni orsono, e ha tutte le carte in regola per essere considerato il massimo capolavoro del rock, anche se definire rock questo disco sarebbe pressoché riduttivo, in quanto per le innovazioni che ha portato alla musica da camera, per le visioni futuristiche in esso contenute, per l’oltremodo perfetto collage musica-effetti sonori-testi, per l’essere stato fonte d’ispirazione per un innumerevole quantità di artisti e, volendo, per l’immane numero di copie vendute, esso va a collocarsi inevitabilmente tra le opere maggiori del Novecento artistico.
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