Le premesse c’erano tutte.

Formatisi a Topeka, Kansas, nel 1970, a nome White Clover avevano fatto da spalla a uno degli ultimi concerti dei Doors, a New Orleans, e già questo la dice lunga. Grazie a un viaggio in Inghilterra del batterista Phil Ehart, dove ebbe modo di conoscere la magniloquenza di Genesis e ELP, lo stile acerbo degli esordi viene subito trasformato in una piacevolissima fusione tra rock, folk e musica classica.

Dopo numerosi cambi di line-up la band assume il nome Kansas e si stabilizza in un sestetto formato oltre che dal già citato Ehart, dai chitarristi Kerry Livgren e Richard Williams, dal bassista Dave Hope, dal cantante e tastierista Steve Walsh e soprattutto dall’importante figura di violinista di formazione classica nonché cantante Robby Steinhardt.

La stesura nel 1974 del disco omonimo è caratterizzata dalla produzione di Don Kirshner, già scopritore dei Monkees. Lo stile si rifà esplicitamente al prog inglese dei primi ’70, con tinte boogie e hard-rock, ed è subito un successone: riempiono stadi e arene consacrandosi come la più grande prog-band statunitense, anche se inizialmente le vendite non sono eccezionali.
Ogni canzone di questo disco è emozionante, pomposa e al tempo stesso trascinante; canzoni come “Belexes”, “Journey from Mariabronn”, “The pilgrimage” e la conclusiva “Death Of Mother Nature Suite” meritano più di un semplice ascolto; “Bringing It Back” porta addirittura la firma di J.J. Cale!

La considerazione finale è che in un certo ambito hard-prog, insieme ai canadesi Rush, i Kansas hanno di gran lunga eccelso su qualsiasi altra band europea.
Con i quattro dischi successivi raggiungeranno la piena maturità e diventeranno una delle band più belle e originali e, volendo, sottovalutate della storia.

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