Emily Haines è una glaciale bellezza canadese venuta al mondo 32 anni addietro. Fino alla deflagrazione della indie (boken social) scene di Toronto e dintorni, la sua notorietà era legata ad un mero legame di parentela.

Il padre, Paul, fu autore dei testi di due significative incisioni della signora Carla Bley come 'Escalator Over The Hill' (1968) e 'Tropical Appetites' (1973). L’incursione nel secondo lavoro a lunga gittata dei BSS ('You Forgot It In People', 2002), quando concesse in prestito corroboranti acuti pop ad un “inno per una vecchia ragazza diciassettenne”, fece saltare il banco.

Nacquero i Metric, con elementi messi assieme a mo’ di Lego, trainati da una ritmica electro-funky e dalla spaventolmente accattivante ugola di Haines figlia. Due dischi in 36 mesi, colmi di frecciate danzerecce e tecno-mitragliate pop: poi, di colpo, da un affossato vaso di Pandora psichico, la biondina ha lasciato fuoriuscire 11 sonate per piano e violino, delicate e leggere come un fuscello.

Oltre 45 minuti in downtempo, oscillando fra Fiona Apple e Tori Amos, Morricone e Neil Young. Un viaggio intimistico, onirico, etereo e conturbante ad un tempo: una notturna trapanazione dei sensi, scandita dai tasti di un pianoforte classico e composto, di volta in volta accompagnato da bassi timidi ed archi strepitanti. Di 'Knives Don't Have Your Back', suo debutto solista, l’ascolto non è agevole, o almeno non immediato. Appare piatto, monocorde ai limiti dell’increatività. Basta però donargli un supplemento di pazienza ed ecco apparire Wurlitzer, sintetizzatori, chitarre slide e fiati mistici che riportano alla memoria le sfide cromatiche di Beth Gibbons ai tempi dei Portishead e di quella "Sour Times" eseguita dal vivo al Roseland di NYC.

Spettrale, angustiante, disperato. Il lato oscuro di Emily Haines.

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