Il lupo perde il pelo e qualche volta anche il vizio.

Anno 1999: dopo la superba trilogia black metal, Garm, oramai stanco di ringhiare inferocito per i boschi uggiosi della norvegia, e sempre più proiettato verso i lidi impervi dell'avanguardia che da questo momento in poi caratterizzeranno il suo originale percorso artistico, decide di recidere ogni legame con una attitudine e un modo di concepire e fare musica che evidentemente non gli appartengono più.

La svolta è così radicale e repentina che non può essere definita come una vera e propria evoluzione stilistica; si tratta piuttosto di un taglio netto con il passato, in cui l'essenza e l'identità del combo norvegese si vengono inevitabilmente a snaturare. Dei vecchi Ulver, di fatto, rimangono solamente il nome e il logo che campeggia sulla copertina (successivamente, pure quello verrà eliminato!).

Punto primo: via boschi, borchie e chiodi, e avanti con giacche, cravatte, occhiali da sole e limousine. Questi i connotati della nuova dimensione estetica della formazione norvegese, impensabile fino a qualche tempo prima. Punto secondo: la produzione è potente, cristallina, ben calibrata. In una parola: perfetta. Agli antipodi dei fruscii, delle chitarre sfrigolanti e della batteria impercettibile che avevano caratterizzato il precedente "Nattens Madrigal" (un'imperfezione sonora, tuttavia, che aveva costituito la veste ideale per gli intenti che ci si era proposti con quell'album).

Punto terzo: la formazione viene ad essere radicalmente rivoluzionata. Oltre naturalmente a Garm (tramutatosi per l'occasione in Trickster G. ), dalla passata gestione vengono ereditati solamente il basso di Hugh Stephen James Mingay (anch'egli, come il cantante, militante nei connazionali Arcturus) e la chitarra di Havard Jorgensen (scusate se storpierò in maniera invereconda i nomi norvegesi non impiegando i caratteri adeguati, ma il programma che utilizzo non me ne consente l'uso, sorry). New entry fondamentale è invece Tore Ylwizaker, mente elettronica della band, artefice (assieme a Garm) della maggior parte delle novità qui presenti, nonché punto di riferimento per gli Ulver a venire. Fra presente e futuro, da segnalare la presenza di E. Lancelot dietro alle pelli e i vari contributi di Knut Magne Valle, chitarrista dei già citati Arcturus.

Le novità, non si fermano certo qui: altro cambiamento clamoroso è l'abbandono della lingua norvegese (scelta che aveva caratterizzato la passata produzione artistica della band). La lingua ufficiale degli Ulver diventa quindi l'inglese. E che inglese, potremmo aggiungere: le parole di "Themes from… ", come suggerisce il titolo stesso, sono di fatto saccheggiate direttamente dal poema "Il Matrimonio del Cielo e dell'Inferno" (classe 1790) a firma del celeberrimo poeta romantico William Blake.

La musica, infine: sulla scia di quanto combinato con gli Arcturus ne "La Masquerade Infernale", il buon Garm decide di abbracciare in toto le atmosfere gotiche e teatrali che avevano caratterizzato quel capolavoro di avanguardia metallica, estremizzandone ulteriormente l'attitudine sperimentale: la discesa negli Inferi narrata dai sublimi versi di Blake, quindi, marcia paradossalmente al pulsare dell'elettronica, parla la lingua dell'hip-hop e segue le imprevedibili evoluzioni dell'avanguardia più allucinata. Quel che ne esce è qualcosa di totalmente diverso rispetto a quanto partorito fino ad allora, dentro e fuori il metal, e se proprio è necessario indicare delle pietre di paragone, non si può che citare la magniloquenza degli stessi Arcturus de "La Masquerade Infernale" (cosa comprensibilissima, dato che tre sesti dell'attuale formazione vi aveva partecipato) e la monumentalità di un album come "Fragile" dei Nine Inch Nails.

Come l'opera di Trent Reznor, anche "Themes from… " è un doppio album, e nei suoi quasi novanta minuti di durata complessiva gli unici indizi che ci ricordano i vecchi Ulver sono gli sporadici sprazzi acustici (testimonianza della componente folcloristica di un tempo) e la superba performance vocale di Garm. Già, la voce di Garm. Se da sempre il cantante si è distinto per una estrema versatilità che gli ha permesso di passare con estrema disinvoltura da agghiaccianti screaming a suggestivi ed evocativi canti dal sapore folcloristico, adesso, abbandonati definitivamente i primi, la poliedricità si sposta sull'asse della sperimentazione e della manipolazione sonora a tutto tondo: dai consueti toni drammatici agli immancabili guizzi da teatro dell'assurdo; dalle oscure narrazioni mefistofeliche alle minacciose voci filtrate, e perfino alle strofe rappate, Garm non sembra volersi fermare di fronte a niente e nessuno. Un'interpretazione personale e davvero difficile da definire, la sua, e l'unica immagine che viene in mente è quella di un ibrido fra un David Bowie maturo, un Nick Cave dei primi tempi, l'Ice-T più metropolitano e il James Hetfield del "Black Album": obliquo come il primo, visionario come il secondo, invasato come il terzo, potente come il quarto.

Per quanto riguarda l'aspetto musicale, c'è da dire che i due tomi si collocano a metà strada fra il passato metallico della band e il futuro elettronico, che già dal successivo EP "Metamorphosis" prenderà il sopravvento, e che culminerà con il capolavoro assoluto "Perdition City". Le chitarre, sapientemente modernizzate e lontane anni luce dai canoni zanzarosi del black metal, continuano a coestire massicciamente con la componente elettronica, nella forma di epici assalti, intermezzi melodici e rocciosi riffoni, sorretti dalle solide linee di batteria, sempre precisa e potente.

Ottimo il basso sporco ed ipnotico di Skoll, da sempre bassista fantasioso, oggi perfettamente calato nel nuovo contesto e sempre pronto a macinare giri efficaci, sia che si tratti di un oscuro trip-hop da incubo, sia che si tratti dell'industrial più dissonante.

Dall'altro versante troviamo le incursioni rumoristiche dello stesso Garm, i campionamenti e il piano jazzato di Ylwikazer, gli assalti di jungle chiamati ad animare un viaggio già di per sé dinamico e coivolgente.

Quello che stupisce di più è l'assoluta imprevedibilità dell'ascolto, che percorre uno schema labirintico, articolandosi per scene, visioni e folli dialoghi. Incontri con improbabili personaggi, paesaggi desolati ed elucubrazioni metafisiche, sono raccontati in una continua alternanza fra brani più compositi (e dalle imprevedibili evoluzioni) e brevi intermezzi.

A tal proposito fondamentale si rivela il contributo di Stine Grytoyr (o più semplicemente "Her"), il cui canto, a tratti etereo, a tratti narrato, a tratti bjorkeggiante, andrà ad impreziosire i diversi episodi, rubando più di una volta la scena al buon Garm, che, come di consueto, ama eclissarsi e lasciare spazi ai suoi compagni.

Da segnalare infine, nella conclusiva "Song of Liberty", la comparsata di tre luminari della scena black metal norvegese: Ihsahn e Samoth degli Emperor e Fenriz direttamente dai Darkthrone. Nonostante la provenienza "nera" di questi tre loschi figuri, parlare di black metal in casa Ulver continua ad essere proibitivo: anche in questo caso, infatti, la macchina di Garm e Tore sarà in grado di ricondurre il tutto nei ranghi dell'electro-industrial qui vigente.

"Themes from… " è un lavoro superlativo, lontano anni luce da qualsiasi altra cosa uscita in ambito metal, anche laddove il metal ha scelto di trascendere se stesso per approdare a nuovi lidi. Se infatti le altre band non hanno che assecondato propensioni per entità musicali come Pink Floyd, King Crimson, The Cure, Depeche Mode, Sisters of Mercy ecc. (da sempre gli ascolti extra-metal più quotati nel mondo metal), gli Ulver decidono coraggiosamente di attingere da mondi totalmente estranei al metal e perfino al rock: quelli dell'avanguardia, dell'elettronica, del dark-industrial. Ma senza piegarsi totalmente ai nuovi dettami, e conservando ancora un forte legame con il verbo del metallo (si pensi all'imponente cavalcata di undici minuti che apre il secondo cd, o a tutti gli intermezzi melodici, di chiaro stampo classico).

Non solo: se solitamente la sola novità del mezzo costituisce motivo di stupore, o addirittura il pretesto per gridare al miracolo, gli Ulver dimostrano una tale convinzione di intenti (merito anche di un artista dal background avanguardistico come Tore Ylwizaker, chiamato ad inniettare in seno al gruppo la sensibilità e la professionalità necessarie per affrontare al meglio la sfida) che gli esperimenti presenti in "Themes from… " non suonano mai banali o approssimativi scimmiottamenti di luoghi comuni, dell'elettronica come dell'avanguardia.

Gli Ulver, piuttosto, riescono nell'impresa di confezionare un album unico, rivoluzionario per il metal e che non ha niente da invidiare a maestri del dark industrial come i Coil o i Das Ich. E se proprio c'è da rilevare un punto debole in questa opera, formalmente ineccepibile e dal rigore concettuale inattaccabile, è l'eccessiva durata, che certo non aiuta un ascolto di per sé non facile, soprattutto laddove gli esperimenti suonano più leziosi e fini a se stessi.

Resta infatti al termine dell'ascolto un po' di stanchezza e l'impressione che qualche cosa poteva essere tranquillamente tagliata o in qualche modo snellita.

Detto fra noi, non mi pare un motivo sufficiente per rinunciare a cotanta bellezza ed originalità.

Carico i commenti...  con calma