Finalmente un gruppo che spiazza i miei sensi. Una versione dark e lo-fi dei Grateful Dead per descriverli in una sola frase. Non credevo potessero uscire dischi del genere nel 2007. Un suono vintage, se volete anche revisionista, con la voce sciamanica ed antica di Dave Heumann (qui suona anche anche la sei corde) e le chitarre selvaggiamente blues a tingere cavalcate ora pastorali e folk ora stoner e psichedeliche. Alla batteria l'ex-Lungfish Mitchell Feldstein con un drumming ed un sound che più settantiano non si può. Vengono da Baltimora, una città non propriamente vivace in quanto a scena musicale, e questo è il loro secondo lavoro (qualcuno ha o mi sa trovare il primo? ne sono alla ricera spasmodica!).

Non v'è comunque barriera spazio-temporale, legge di gravità o resistenza psichica capace di fronteggiare un album come "Rites of unconvering". Perchè la musica degli Arbouretum è una ragnatela di canti rurali e di eco translucenti che arrivano da ogni dove per entrare subito in circolo, di racconti malati e arie gravitazionali, di cori e sussulti chitarristici laceranti che portano la mente dell'ascoltatore in una specie di suggestione senza fine. Avete capito insomma: mistici intrecci di chitarra con le radici piantate nel folk, essenza della musica popular americana, che viene trasfigurato, elevato in atmosfere liturgiche-estatiche. Con il basso compresso e greve che pulsa e lascia scie visibili nelle strutture sonore che girovagano beatamente senza una meta ben precisa. Rock crudo, senza tecnicismi di sorta, senza sovraincisioni, non alla moda ma immerso nei sixties/seventies fino al midollo. Musica con un mood ed un pathos decisamente antichi e ammalianti, un sapore alcune volte addirittura progressive ed altre blues, ma molto raffinato: alcune intuizioni o rimandi a passate memorie sono appena accenati, quasi i membri del gruppo avvertissero un pudore nel citare la migliore tradizione musicale (folk e non solo) americana.

Con una perizia quasi artigianale si costruiscono un suono che è la sintesi perfetta tra i sopracitati Grateful Dead ("Sleep of Shiloam"), i primi e più oscuri Sabbath (l'iniziale lussureggiante "Signposts and Instruments") e gli Stones sotto oppio rallentati ed acustici ("Mohammed's Hex and Bounty").  Difficile comunque scegliere fra un brano e l'altro, ognuno è la naturale conseguenza di un procedere per emozioni che cresce e si espande insieme all'ascolto sino all'ipnotica ballata finale "Two Moons": è allora che ci rendiamo conto in che razza di incantesimo siamo finiti, in un luogo terribile e fantastico sospeso sul filo dell'allucinazione pura.

Pastorale, radicale ed allo stesso tempo semplicemente "religioso"... Facile trionfalismo? Provate ad ascoltarli, gli Arbouretum fanno impressione.

 

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