Di solito, quando un artista abbastanza giovane pubblica da 8 anni dischi a cadenza annuale, due sono le possibilità: o è spinto da un'irrefrenabile urgenza compositiva, o ha scritto nella sua carriera una canzone di successo e la sua etichetta cerca di spremergli i testicoli come limoni per raccogliere quanto possibile prima dell'ovvia implosione del mercato. Fortunatamente Ben Chasny, titolare unico della sigla SOOA, fa parte della schiera degli artisti iper-produttivi.
Dopo le fatiche etno-trance del precedente "The Sun Awakens", il buon Ben ha visto bene di non sedersi in veranda a godersi successi di critica e pubblico (grazie anche al suo essere diventato elemento fisso di un'altra band di culto come i Comets On Fire), e licenziare l'ennesima prova sulla lunga distanza. "Shelter From The Ash" si pone, all'interno della discografia del nostro, come compendio per la comprensione della sua parabola artistica. Contiene tanto il pathos prettamente folk tipico del primo periodo, quanto le evoluzioni e le devianze del secondo. Se un difetto si può trovare, è quello della mancanza di spigoli, non tanto a livello musicale (anche se ogni tanto mancano i fraseggi free della batteria di Chris Corsano), quanto per quel che concerne le atmosfere evocate. L'album scorre senza intoppi, quasi innocuamente verrebbe da dire, col rischio di passare inascoltato, o, al contrario, di piacere a un po' troppe tipologie di ascoltatori. Con questo non difendo l'orticello da fedele della prima ora (anche perché non lo sono), ma da Chasny mi aspetto sempre prove musicali poco inclini a compromessi.
Sia chiaro, "Shelter From The Ash" non è disco mediocre tanto meno interlocutorio, perché lo spettro tecnico e compositivo di Ben è talmente ampio da impedirgli di scrivere canzoni "brutte". Anche negli episodi più canonici, come nella ballata "Strangled Road", Chasny gira a suo favore lo scarno impianto strumentale e il duetto vocale, intrecciandoli alla perfezione, e caricando di emotività sofferta un brano altrimenti banale. Interessante e riuscito il climax teso della lunga "Coming To Get You", combattuta fra fraseggi acustici e elettrica ribassata; altrettanto riusciti il fingerpicking psichedelico e prolungato di "Goddess Atonement" e il folk ipnotico di "Final Wing". Fino ad arrivare alla titletrack, episodio quasi pop nella sua fruibilità, ma pregno di una peculiare visionarietà desertica e allucinata.
Per quel che mi riguarda, attendo Ben alla prossima prova, sospendendo giudizi sul futuro e confronti col passato ma godendomi il presente.
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