Il quinto album degli Autechre, "LP5" (Warp, 1998), insiste sui concetti intrapresi nel capolavoro "Chiastic Slide" (dell'anno precedente) amplificando ancora - e accadrà in maniera crescente con le successive uscite - la sperimentazione ritmica, ma al contempo sfoggiando una pulizia sonico-digitale che ha semplicemente dell'incredibile se pensiamo a quanto vasto, deturpato e ricercato sia lo spettro sonoro complessivo, che viene però "mascherato" fornendo ampio spazio alla presenza di parti melodiche, spesso dolci, tenui e in netto contrasto con gli ingarbugliati pattern ritmici, ma che difficilmente torneranno in modo cosi chiaro e uniforme. Si ipotizzi una stravagante collaborazione tra Eno e Merzbow: il risultato sarebbe più o meno qualcosa di simile ad "LP5".
Basti pensare allo pseudo-carillon e le timide melodie orientaleggianti che affiancano le frenetiche dissonanze percussive di "Acroyear2", l'infantile dulcimer sintetizzato di "Melve" o il tripudio digital-ambientale di "Drane2", raro caso all'interno della produzione del duo, in cui per una volta è proprio la melodia a trionfare, lasciando il ritmo ad un surplus ornamentale, o meglio, lasciando che la stessa 'melodia' - per mezzo di matematiche modulazioni - si muova come fosse lei stessa il "ritmo" (cosa già accaduta ad esempio su "Rsdio" in "Tri Repetae" o poi su "VI Scose Poise" in "Confield", dove ne costituiva l'idea principale).
Propensione alla melodia che si ritrova sui carezzevoli accordi di "Corc", che cita gli esordi ambient-techno (salvo l'aggiornamento del setup), e "Fold4,Wrap5", dove si intravede una delle tecniche più utilizzate, e suggestive, dagli Autechre attuali, ovverosia il tempo che rallenta, per poi riaumentare, ciclicamente e all interno di una stessa battuta - esattamente come si trattasse di un solo allucinato sul bhayan di una tabla indiana - con la differenza che il ruolo del sitar viene qui svolto dal sintetizzatore, che propina riff delicati e cristallini sulla scia di quelli che resero grande il debutto "Incunabula").
E' dunque negli episodi più irrequieti che si trovano gli spunti migliori: è il caso dei tempi irregolari (il 7/4 ai nostri caro soprattutto) di "777", "Rae", "Vose In" e la stupefacente "Caliper Remote", malati grovigli ritmici dall'intensità inaudita su cui giganteggiano i frastagliati puzzle robotico-meccanici appena "scoperti" col disco precedente, ma con frasi melodiche, pur interessanti e vicine ora all'electro futurista di Detroit, ora agli acquarelli degli Orb, quasi sempre sepolte dal martellante e macchinoso tam tam asettico.
"Arch Carrier" e "Under BOAC" si pongono invece come summa di questi due distinti tratti: la prima propinando insoliti riff electro che riportano ancora una volta alla Motor City, non lesinando beat spessi e più 'regolari' come accaduto nel periodo "Tri Repetae"; la seconda - vero e proprio capolavoro del disco - invece richiamando i malati bisbigli alieni di "Silverside" (di "Amber" ndr) aggregandogli cori sintetizzati e profonde pulsazioni di basso egregiamente coadiuvate dall'ingegnoso, convulso, digitalissimo break apatico.
Lavoro riuscito, innovazione di livello, cinque stelle indubbiamente, ma di poco "inferiore" sia a quanto fatto sul monumentale predecessore, sia sul successivo, pazzesco, "EP7", che in realtà - anche se non lo è ufficialmente - possiamo benissimo considerare come un'album, vista la corposa durata (all'incirca sessanta minuti di pezzi inediti). Lavoro, quest'ultimo, che aprirà definitivamente le porte all'astrazione degli Autechre 2.0.
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