Ecco un altro ragazzo-poeta solitario.
Di quelli che registrano tutto in casa – me li immagino sempre come in una foto un po' buia, in cui l'unica fonte di chiarore è il monitor del computer; chini sulla chitarra, sulla tastiera e sui propri sentimenti.
Che poi se ci fate caso, anche se fanno tutto da soli, non si chiamano mai col proprio nome: Kieran Hebden è Four Tet, Jonathan Bates si fa chiamare M e l l o w d r o n e, Jamie Stewart diventa Xiu Xiu, Patrick Zimmer si tramuta in Finn.
Ha la loro stessa sensibilità Andrew Broder, colui che si nasconde dentro la nebbia (Fog).
Prendete, appunto, Four Tet e rallentatelo o velocizzatelo, di tanto in tanto: la varietà e assurdità dei suoni è quella. Però (e, anche in questo caso, di tanto in tanto – ché il nostro foggy Andrew non è tipo da mantenere uno stesso umore per più di due minuti di seguito), aggiungeteci una voce: flebile e stonata, ovviamente.
Avrete la musica di Fog.
In "Ether Teeth" (Ninja Tune, 2003) il mondo di Andrew Broder si sviluppa così: tra filastrocche dai ritmi imprevedibili (What A Day Day) e nenie lagna-rock condite da suoni di chissà quale natura (See It? See It?).
C'è un minimalismo dolce, privo di qualsiasi posa pseudo-intellettuale, nelle lievi note di piano scandite da qualcuna che mastica un chewing-gum (The Girl From The Gum Commercial) e nel cinguettio di uccelli appena disturbato dal timido na-na-na di Andrew, nella finale Cardinal Heart.
Non venderà mai tanto, no. Ma i poeti solitari non è quello, che vanno cercando. E noi... noi andiamo cercando loro.
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