"76:14" è uno di quei pochi avvenimenti che puo dirsi tra i degni eredi della lezione ambientale e concettuale di Brian Eno. Ciò deve far riflettere sul miracolo venuto fuori dalle teste di Tom Middleton e il recentemente risalito alla ribalta Mark Pritchard (presente Harmonic 313?), entrambi grandi produttori e già autori di altri ottimi dischi a quattro mani (il parto sotto l'aka Jedy Knights su tutti) ma per un motivo o l'altro spesso ingiustamente dimenticati.

Cominciamo subito col dire che nel breve, ma generosissimo, fenomeno ambient-techno dei primi novanta i dischi con le palle non si contano, i trip sconvolgenti nemmeno, ma soltanto una decina di essi possono innalzarsi dallo status di 'grande disco', 'capolavoro', 'masterpiece' et similia, per porsi direttamente in quello di 'imprescindibile', 'mondo a parte', esperienza extrasensoriale; luoghi spazio-sonico-psico-visuali non ben identificabili, aree accessibili soltanto tramite essi. Vi rientra in pieno "76.14", non un album come tanti, bensì un esempio concreto di quanto appena detto. Significativa in tal senso è la stessa assenza di titoli per le tracce, che si riferiscono alla durata di esse (come d'altronde il titolo della stessa opera, ossia il tempo totale),  una scelta ben precisa, illustrata anche nelle note, che vuole l'ascoltatore dia il suo soggettivo significato a quest'ultime, libero di interpretarne i contenuti e i paesaggi come meglio vuole, aiutato ovviamente non poco dalle atmosfere iper-mentali che accompagnano tutti questi settantasei minuti, atmosfere che stimolano la psiche più che il corpo o l'apparato uditivo (praticamente uno degli esempi più limpidi del concetto di 'danza mentale' ideato ai tempi da Aphex Twin, con cui tralaltro lo stesso Tom collabora prima che questi si mettesse del tutto in proprio). Un concetto per certi versi accostabile anche alla filosofia eno-iana del non-ascolto, a cui siamo in ogni caso vicinissimi anche sotto il punto di vista musicale, con lunghi tappeti 'discreti' affacciatisi come parte della vita stessa. E proprio come con un "Discreet Music" o "Music for Airports" ogni qual volta giri questo disco la magia che ne viene fuori è sempre la medesima, e, cosa ugualmente importante, non si arriva mai al semplice sottofondo inteso come tale, o peggio alla noia (altrimenti detta rottura di coglioni). E questo è quello che differenzia un .grande. disco Ambient da un disco ambient.

"76.14" non è solo concetti, astrazione, filosofie. E' prima di tutto un disco incredibilmente umano, fragile, meraviglioso, tappe oniriche fatte di pennellate melodiche minimali, in punta di piedi oserei dire, densi substrati organici con le macchine analogiche programmate in modo tale il suono risulti caldissimo e avvolgente, dispiegando tenui vibrazioni e onde pelledocali. Diciamo pure che se il celebre "Substrata" di Biosphere è stato il disco più 'freddo' comparso nel panorama ambientale, "76.14" è senza dubbio quello più caldo, caldo nel vero senso della parola e non solamente per merito del caratteristico suono di vecchi synth analogici. Le voluminose texture sintetiche, gli arrangiamenti e la produzione sono poi davvero avanti per l'epoca, con tutto quel background di prese dirette impercettibili, micro-ritmiche e rumoretti aritmici che saranno anni dopo perno centrale di grandi artisti quali Gas, Vladislav Delay, Chartier o i vari artigiani del glitch e del microsuono come forma di 'ambiente' o 'fondale' piuttosto che come elemento di stesura o errore sonoro, quindi non si possono che tirare in ballo le avanguardie del minimalismo digitale, il mondo della sonic-art, le installazioni, la cosiddetta microwave e la proposta di etichette quali Line, Entr'acte, Trente Oiseaux.

Sicuramente debitori anche dei Tangerine Dream più profondi, a cui dedicano tralaltro una monumentale cover (di "Love On A Real Train", qui in una viaggiosissima suite tridimensionale con battiti ossessivi e sweep sintetici che emulano i classici slide 'Gilmorousi') in "76.14" Mark & Tom ci guidano fondamentalmente in un percorso, un viaggio di settantasei minuti e quattordici secondi dove ogni tentativo di descrizione fisica o letteraria appare quanto mai fuori luogo. Citando quelli che sono i panorami più memorabili non si puo non pensare alla paradisiaca "14:31" dove un ripetitivo pendolo funge da ritmica sopra a tutto l'Orb-eggiante campionario di 'suoni trovati' (vento, onde, aerei) e un maestoso coro etereo che si va poi a gettare nel flusso di umili riff pacifici e sinuose linee di basso; i respiri, i tribalismi e i distanti accordi che arricchiscono "9:25", le terre rarefatte di "4:14", le orchestrazioni di "4:02" e la 'comunicazione globale' di "0:54" con una sentenza ripetuta in 9 linguaggi diversi (anche un maccheronico italiano) ["la comunicazione mondiale, l'espressione emozionale trasmessa per mezzo del suono globale"] riportando vagamente all'epica e misteriosa introduzione di "Chill Out" (KLF) e di tutto quel mondo distante e temibile, fantastico e sereno al tempo stesso. 

76:13 è la pace dei sensi, prima ancora che un grande capolavoro della musica elettronica. Immancabile in ogni collezione che si rispetti.
 

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