La doppia licenza Warp / Schematic non è mai sembrata così appropriata. "Lipswitch", 2001, il primo full lenght del Richard Devine astratto e macchinoso così come lo conosciamo adesso, abbraccia infatti sia la linea editoriale della seminale label inglese (che si occuperà di distribuirlo su scala europea), che quella della meno nota realtà americana (che al momento, oltreoceano, aveva dalla sua un discreto e meritatissimo seguito elitario): quella ripetitività e scarsa propensione al rischio tristemente tipiche della seconda era Warp (e quindi gli anni '00), quell'approccio radicale, innesto continuo di nuove idee, cervelli in fermento e sperimentazione pesante che hanno fatto della Schematic di Miami un vero e proprio punto di riferimento per quanto concerne i territori più coraggiosi dell'elettronica di matrice IDM (errato comunque limitarla ad essa!), etichetta talmente 'avanti', e rivoluzionaria, da non essere mai stata veramente capita, portando alla sua inevitabile chiusura, figlia probabilmente di una fetta - vasta - di pubblico troppo ben abituata alle carezzevoli melodie dei Boards of Canada o alle proposte iconografiche di un Aphex Twin, per citare i due nomi più in voga del periodo, senza particolari antipatie. E' la stessa fetta che ripudierà/fraintenderà/snobberà/sottovaluterà un disco epocale, e dalla chiara impronta 'Schematic', quale "Untilted", capolavoro della musica tutta (prima ancora che delle micro-realtà Autechre o Warp), salvo poi incensare il celebre "Tri Repetae" che, chiaro rimane un indiscutibile 10/10, ma che in realtà non mostrava nulla che non fosse già stato concepito da artisti ai più meno noti (o addirittura dagli stessi Autechre), un disco che - con le dovute proporzioni - amo definire come il loro disco pop, bellissimo ma innegabilmente con pochi azzardi, meno geniale se confrontato al resto della loro produzione (fatta eccezione per due-tre episodi davvero statuari), fatto di melodie facili, strutture pulite, trucchetti per rendere il tutto più accessibile anche ad orecchi meno abituati a certe sonorità (o provenienti da terze realtà - rinomata è ad esempio la sua notorietà in ambienti prettamente rock), e tutto questo proprio quando nello stesso anno, relegato ad un ep, usciva un capolavoro quale "Garbagemx36", brano atipico e dallo stile personalissimo che mai come nulla di precedentemente creato sapeva fondere in una cosa sola idm, techno, ambient, electro, detroit, dub-techno e glitch, ossia buona parte del meglio che la scena elettronica stava offrendo, in un'epica cavalcata di quattordici minuti da far invidia persino alle suite dei Pink Floyd versione progressive.
Stiamo divagando? Si e no. Gli Autechre devono infatti molto alla Schematic. La Schematic deve molto agli Autechre. Prendiamo dunque "Lipswitch" a tutti gli effetti come uno Schematic più che un Warp, parlerei infatti di una sorta di sciacallaggio da parte di quest'ultima, non a caso la release madre e la firma del contratto risalgono a Schematic, ma complice il buon riscontro ottenuto dal rmx di "Come to Daddy" (hit di Aphex Twin) targato Richard Devine, si è provato un pò a fare cassa, opinione personalissima, ma che non credo si discosti molto dalla realtà. Si tratta di un mini album (appena quaranta minuti la sua durata) che puo dirsi sicuramente lontano dal livello stratosferico raggiunto nelle monumentali uscite successive (opere ultra-complesse, geniali, difficilmente replicabili/imitabili e già ampiamente entrate nella storia della musica elettronica) [ - non esagero con i superlativi dal momento che trattando di questo personaggio sono prassi - ] che però non lesina di mostrare già da ora tutto il genio del radicale producer di Atlanta, la magniloquenza di quello che è il padre di alcune delle composizioni più complesse e stratificate che abbiano mai raggiunto l’orecchio degli umani.
Da sempre involto in tutto ciò che concerne il culto e la forma del 'suono', Devine è, tra le altre cose, fonico, sound designer di banchi per le case di VSTi più prestigiose, autore di numerosi plug-in d'avanguardia nonchè rispettata firma di innovative tecnologie audio (sia hardware che software), autore di live-show perfettamente bilanciati tra improvvisazione e pre-programmazione maniacale (ovvero, quest'ultima, il suo marchio di fabbrica) e, non poteva essere altrimenti consideratone il talento naturale e la sovraesposizione che permette una label rinomata e tutt'altro che underground come la Warp, abile remixer, sin da subito richiesto da nomi importanti - quali Herbert, Enduser, Aphex Twin e l'amico/collega Otto Von Schirach. Ma prima di tutto Richard Devine è un personaggio abbastanza particolare, soggettoide precisino-perfettino di livelli inenarrabili (anni e anni richiedono infatti le sue creazioni), geek di primo ordine, uno che magari, a vederlo in faccia, non si discosterebbe molto da quei nerd un pò sfigati modello 'Silvano Rogi', ma che poi di contro sono capaci di tirarti fuori alcune delle cose più devastanti mai pubblicate sull'etere. Va detto, non è proprio il caso di questo debutto, senz'altro più 'umano' e leggermente naif (ma solo e unicamente se rapportato a quanto in futuro ci farà sentire), in ogni caso da prendere in considerazione per tutti quanti interessati all'evoluzione di questo artista e all'IDM più creativa (è bene ripeterlo, se la Warp del 2001 era già incancrenita e in fase calante, ben diverso è il discorso per quanto riguarda la leggendaria Schematic, etichetta che più di tutte ha saputo portare l'IDM in nuovi inesplorati lidi, che fanno della sperimentazione il fattore imprescindibile, e che vive proprio in quell'annata il suo momento più glorioso.
L'arte di Devine è rinomata, ogni minimo suono che è possibile ascoltare nelle sue composizioni, sia esso il synth futuristico, il drone cavernoso o la più insignificante micro-percussione, è programmato da zero (anzi spesso le fonti stesse - synth, vst etc. - sono ideate da lui stesso in persona), vivisezionato nella sua totalità, curando all'estremo il più minimo dettaglio del più minimo particolare dell'ancora più minimo suono; dopotutto non occorre recarsi in quel di Atlanta, basta servirsi di google, digitare il suo nome e dare uno sguardo ai suoi studi mastodontici per capire di che razza di personaggio stiamo parlando (tralaltro essendo un artista che sfrutta molto le tecnologie digitali e i vsti più performanti è scontato immaginare come quello che troveremo all'interno dei suoi laptop sia ancora più corposo). Dunque chi è Richard Devine? Principalmente uno sperimentatore di grande spessore, un genio, il perfetto contrario della celeberrima figura di 'bedroom producer', in quanto professionale e senza nulla, ma proprio nulla, lasciato al caso; a ruota un pazzo, un feticista del suono, uno che ha persino campionato il suo battito del cuore per farne elemento ritmico. Richard Devine rappresenta una delle più grandi e definite entità per l'elettronica sperimentale del decennio appena andato, personaggio amante del rischio e del nuovo, uno che lo senti e subito ne riconosci l'inconfondibile tocco, in anni in cui tra elettronica max/msp-iana, microwave, impro di fennesziana memoria, artisti digitaloidi, chili di uscite drone e field recording si fatica a trovare idee che non siano già state frutto di qualche testa operante nella seconda metà del decennio precedente (ovvio ad esempio, valutando un'uscita Line, per quanto succosa e ben fatta, ricondurla alla Raster Noton per poi a sua volta ricondurre quest'ultima agli esperimenti di Markus Popp), mentre per Devine la questione 'radice' non si pone, sebbene sotto alcune prospettive vicino agli Autechre il suo è uno stile personalissimo e unico nel suo genere.
Il suo modus operandi non è dissimile da quello di un ben più celebrato Squarepusher, ossia coinvolgenti trame concettualmente sospese tra un approccio jazz e progressive rock, dove però al basso live, alle percussioni asciutte e alle melodie piacione di quest'ultimo si sostituiscono droni scurissimi, oceani di suoni aspri e ferrosi che non possono che ricordare i migliori assalti industriali, pioggie di collage metallici che richiamano invece alle lande dinamiche e incatalogabili del maestro Steven Stapleton, formule di matrice Stockhausen, chili e chili di sperimentazione. Dovessi trovare un aggettivo uno per descrivere la musica di Devine però, più che sperimentale o astratta (dal momento che si è sentito di molto più appropriato a tali terminologie) esso sarebbe sicuramente "creativo". Molto creativo.
Devine sperimenta, libero da barriere e clichè, come chi si serve dell'elettronica vorremmo sempre che fosse (le cui potenzialità praticamente infinite ci fanno apparire ridicoli e risibili coloro che la utilizzano con un fare approssimativo / pop / facilone - peggio ancora se con idee copiate da terzi arrivati prima e/o pretenziosi atteggiamenti da star -, e mi viene da pensare a gente come Jarre, Vangelis, Underworld, Air, Fatboy Slim, Crookers, Moby, Guetta, Gary Numan etc. Devine invece lo inseriamo nella categoria degli sperimentatori/creativi/eclettici/visionari/anti-star/anti regole commerciali, più semplicemente Artisti con le palle, dunque nello stesso contenitore insieme a gente di correnti inventive e molto aperte, collegabili a musique concrète, industrial, folk apocalittico, abstract idm, detroit-techno, free jazz, ambient-techno, experimental rock ecc. ma che, nella maggior parte dei casi, difficilmente riesce ad essere etichettabile, proprio per la loro abilità nel rompere schemi pre-confezionati e già esistenti.
La sua è una musica ben bilanciata tra l'astratto, il convenzionale, e un riuscito mix dei due, non lesinando spesso e volentieri beat regolari, che affondano le radici nell'hip hop sperimentale di casa Mush/Anticon o al powernoise più distruttivo, ma che vedono affacciarsi nel sottofondo fiumi di metriche irregolari, assalti rumoristici e suoni mai uditi prima. Possiamo fornire un'adeguato metro di paragone citando gli ormai ben noti Matmos, capaci di sperimentare a dosi massicce come di concedersi a formati canzone decisamente più easy. Monumentale è l'intro "Resource, Leak", che ci introduce nel viaggio per i meandri dell'elettronica più crepuscolare, annichilendoci con un temibile assemblaggio di glitch selvaggi e baccanali di caos metallico, posti leggiadri sul maestoso tappeto 'dronico', ricordando quelle che furono le leggendarie architetture industrial-ambient targate Kranioklast. "Patelle" cita gli Autechre del medesimo periodo, ereggendo sentieri sinusoidi presso cui si incontrano le più disparate specie (non) viventi, blips e clicks di ogni tipo, stralci di ritmi asettici, forzando su una forma canzone pressocchè inesistente e affidata alla sola evoluzione imprevedibile di quest'ultimi, lasciando però quasi sempre fisso il pattern di cassa, quasi a rappresentare il suolo di tali sentieri, la copertina degli avvincenti saggi Deviniani; l'omaggio agli Autechre si può rinvenire nella stessa outro, che, come accaduto spesso nelle loro produzioni, si affida al solo rumore aforme/aritmico, come se quello stesso suolo finisse per franare. Le scosse sono percettibili.
La formula si ripete con l'accoppiata successiva, "Route, Increment" (breve vignetta dark-ambient) e "Swap, Trigger", col suo andamento nervoso e incerto, sospesa com'è tra breakcore, industrial, noise, hip hop e le sapienti manipolazioni su ogni singolo suono (suoni, è bene metterlo in luce, singolarissimi, programmati con fare maniacale, spesso impossibili da seguire/identificare), che fanno sì che nulla si ripeta mai realmente (tranne, di nuovo, la partitura di cassa, che per la cronaca farebbe crollare i muri), una traccia che si sposa concettualmente con le più affiatate ensemble jazz, con le evoluzioni ritmiche ad emulare l'improvvisazione alla tromba, i cimbali a far la parte della batteria, i colpacci di cassa che stanno come le note di un Mingus stavano ad un giro base del contrabbasso, a tenere tutto più o meno in piedi, a metà tra ruolo primario e secondario, non astenendosi però da sostanziali variazioni sul tema nonchè spazi in cui svettare, imporsi, dominare su tutti. "Kepter" è forse la traccia più potente, con un beat simil-hip hop talmente devastante e sporco da farci ricordare le migliori produzioni di "Funcrusher Plus", microritmiche fiere e mai dome, in costante mutazione, visionari strati di pad che portano dritti a Detroit; lo stesso si puo dire per "Block, Variation", che ad un certo punto si lascia andare persino a una cassa in quattro, con accenti bellicosi, bpm ridotti all'osso e un attitudine distruttiva che ci ricordano un pò la prima EBM; a dir poco sconvolgente invece ciò che segue questa cassa in quattro: un delirio di suoni (di ogni tipo, di ogni timbro, di ogni lunghezza) difficilmente uditi prima (lo stesso succede sull'incredibile "Scatter, Fold, 28", se possibile ancor più tecnica), architetture talmente complicate e intrecciate che è lecito chiedersi se Devine nella sua vita non abbia fatto altro che programmare suoni.
C'è un po di tutto dunque nella musica dell'americano, una sorta di cantautoriato affidato alle macchine, che dispensa colte citazioni, tematiche brillanti e ricercate che possono spaziare dalle provocazioni della prima industrial, alle visioni futuriste dei Kraftwerk passando per le filosofie detroitiane, l'artiglieria pesante della techno tedesca e i concetti dell'Eno non-musicista. Laddove però il teorico della merda Otto Von Schirach, nella fattispecie in quella che è la sua reincarnazione più recente/attuale, condensa ciò in approcci weirdo/anti-music accostabili all'arte dei New Blockaders o dei Residents più caricaturali, con collage deliranti volti a ridicolizzare tutto e tutti (a tal proposito ne approfitto per (ri)fare pubblicità a questo artista sottovalutatissimo, a mio avviso il più grande dell'elettronica degli ultimi dieci anni, segnalando la geniale parodia sul dubstep di bassa lega alias dubstep-commerciale-americano alias remix di Rusko e simili, la parodia sui produttori IDM, nel loro versante più nerd-serioso, con tanto di arguto testo "wiccan get together.. idm..usb...aids!!"), Devine fa ciò a piccole dosi, e in modo tutt'altro che bizzarro, prendendosi fin troppo sul serio, servendosi di elementi impercettibili, non sempre rintracciabili, che richiedono un'adeguata preparazione, una reale conoscenza dei fatti, forte di teorie che saranno senz'altro più visibili su un disco come "Aleamapper", pieno com'è di citazioni a tutti i maestri dell'elettronica dei '50, '60, '70, alla musica concreta e all'industrial.
Il fiore all'occhiello è comunque l'ultima traccia, una scelta acuta da parte di Devine, quella di chiudere la sua opera con un finale epico, teatrale, pomposo: "Lens, Align" è infatti una cosa che raramente si era sentita prima d'ora, ritmiche totalmente astratte, stesure pazzesche che sfociano in un senso di paranoia, smarrimento e inquietudine poche volte raggiunto in proporzioni così elevate nel genere, rimane inoltre impresso quel tappeto di archi che più artificiali non si può, a dispiegare un tema apocalittico, dismesso, un avviso a quanto di distruttivo seguirà dopo questo folgorante debutto, segnali da un non ben precisato essere, che non è certamente di questo mondo, e che è solito farsi chiamare Richard Coleman Devine. E se questa fosse la sua verà identità anzichè una patetica photoshoppata destinata a vendere la propria immagine? Non è dato saperlo, è in ogni caso un immagine che meglio di mille parole fotografa la 'testa' del nostro, fonte di una musica tra le più cervellotiche e complicate che la storia ricordi, una musica totalmente fuori dal mondo, e "Lipswitch" - che per inciso farebbe il culo al buon 70 % dei dischi che escono attualmente - altro non è che un banale assaggio, un 10 % delle potenzialità di un artista che con un disco-masterpiece del calibro di "Aleamapper" stupirà il mondo intero.
Carico i commenti... con calma