Oh ma guarda un po', una novità, anzi, di più, un esordio assoluto! Roba bella, vero? No, una ciofeca immonda. E che vi posso dire, il primo ad esserne scocciato è proprio il sottoscritto, ma il contrappasso di pescare nel mucchio a scatola chiusa è proprio questo: di robetta insignificante/mediocre me ne è capitata parecchia e in generale non ne parlo mai, non saprei proprio cosa inventarmi per mettere insieme un paio di righe degne di essere lette. Questi Years & Years però sono andati veramente oltre, a un simile concentrato di insulsaggine e sciatteria un po' di gogna non la toglie nessuno, anche perchè, se tanto mi da tanto, non faranno assolutamente fatica a trovare qualcuno pagato per parlarne bene e promuoverli a un pubblico che... boh, misteri del genere umano: io un coso del genere non lo consiglierei al mio peggior nemico, ma se album di questo tipo trovano nientemeno che majors discografiche disposte a pubblicarli con relativi investimenti vuol dire che evidentemente qualcuno se li compra pure. Lasciamo stare.
Vi ricordate gli Hurts, quel duo di fighetti simil new-romantic che arrivò al fatidico quarto d'ora di celebrità tre anni orsono se non vado errato? Ebbi modo di parlare anche di loro, e naturalmente li trattai come peggio potevo ma, credetemi, in confronto a questi sembrano dignitosi e financo bravini; per la serie "una volta toccato il fondo non resta che scavare", e anche molto in profondità in questo caso. Secondo Wikipedia, questi Years & Years farebbero synth-pop, house ed elettronica; roba intrigante, con tutte le carte in regola per piacermi, il cantante Olly Alexander poi è pure un mio coetaneo, ma si dai proviamoci, anche con una certa dose di fiducia, classe '90 alla riscossa! Risultato? Una cinquantina di minuti buttati letteralmente al cesso, tra tutti i dischi orrendi da me ascoltati (e ce ne sono alcuni che ricordo quasi con affetto) questo occuperebbe una posizione altissima in un'ipotetica graduatoria, top five come minimo se non addirittura podio. "Communion" degli Years & Years è un disco di merda senza possibilità di appello e senza alcuna attenuante, detto nella maniera più chiara ed inequivocabile possibile.
Tutte le mie speranze di trovare qualcosa di carino, un elettropop piacevole e sbarazzino, magari non originalissimo, magari anche un po' tamarro o un po' fru-fru ma godibile si sono infrante rovinosamente fin dai primi secondi del primo ascolto; già, "Communion" fa capire fin da subito l'aria (viziata) che tira. I tre minuti scarsi di "Foundation" bastano e avanzano per capire con chi si ha a che fare, la musica è a livelli ectoplasmatici o quasi, effetti elettronici di background e poco più (e devo dire che come strumentale sarebbe stato pure passabile), il che significa mettere in assoluto risalto la voce del cantante Olly Alexander, e mettere in risalto un caprone del genere in teoria dovrebbe essere un suicidio artistico e commerciale, ma evidentemente c'è qualcosa che mi sfugge. Il signorino, carisma e credibilità inesistenti a parte, sa fare solo due cose: lagnarsi o canticchiare su qualche base un po' più vivace (che per chi mastica anche un minimo di disco, hi-nrg o anche "wonky pop" moderno di buona qualità non potrà che risultare fuffa informe), in entrambi i casi sfoggiando un falsetto irritante e insulso, talmente noioso, stereotipato e privo di personalità che, senza azzardare paragoni blasfemi con Jimmy Somerville che ancora mi risuona per le orecchie, arriva addirittura a farmi rimpiangere le varie "Relax Take It Easy" e "We Are Golden" di Mika, quello almeno un minimo di fantasia ce l'ha e qualche canzonetta l'ha pure azzeccata. Qui invece neanche quello, le musiche sono tutte a livello di bassa manovalanza del genere, niente creatività, originalità, nemmeno un pizzico di flamboyance. Canzoni insignificanti e impalpabili con l'unica parziale eccezione del singolo "Shine", che con suoni un po' più carichi e soprattutto un cantante degno di questo nome sarebbe stata una buona performance nu-disco, per il resto il nulla regna sovrano, i lenti sono semplicemente abominevoli nenie iperglicemiche venate di finta sensibilità e sofferenza costruita, c'è pure un evidentissimo plagione dei Fischerspooner, "Take Shelter", tanto per non farsi mancare nulla. Per il resto tutta pappetta predigerita e cantata da schifo, un improponibile ibrido tra Mika, gli Hurts, i Bastille (da non confondere con gli altrettanto ignobili Baustelle) e qualche altro aborto pseudo-alternativo di cui per fortuna non sono a conoscenza.
Eppure pronti via, subito debutto con la Universal, queste sono cose che mi fanno veramente incazzare, altro che i vari burattini made in De Filippi: i contatti giusti, qualche marketta e vai col tango, almeno un giretto di giostra è assicurato; beati loro, uno schiaffo morale a gente veramente brava e con qualcosa di interessante da dire che stenta a trovare spazio. E ce n'è parecchia in giro, ad esempio questi Roboteyes, canadesi, scoperti per caso su Youtube grazie a una spumeggiante cover di Klaus Nomi; cantante bravissima e idee valide, loro si che meriterebbero credito e fiducia, eppure non sono ancora riusciti a combinare nulla di concreto discograficamente parlando. Insomma, la mediocritas tutt'altro che aurea di questi miracolati per non meglio specificati motivi mi ha veramente lasciato un retrogusto di merda e bile acida in bocca, non tanto per le loro insignificanti canzonette che nel giro di qualche giorno avrò completamente rimosso dalla memoria, è proprio il "meccanismo" che ci sta dietro ad essere bacato, ormai non dovrei più stupirmene e nemmeno scandalizzarmi, però...
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