Il disco oggetto delle mie attenzioni si apre con una serie di note ripetute all’unisono da basso e corno, con un sottofondo di suoni elettrici strazianti. Il ritmo è lento e un leggero eco accompagna una tromba in lontananza.
Piano, piano il ritmo aumenta, le tastiere si fanno più incisive e la tromba comincia a divagare. Il basso è sempre li, con quel motivetto iniziale sempre più incalzante e deciso. A destra ho una sezione ritmica che mi travolge. A sinistra sento le leggere dita di Hancock che ricamano contrappunti alle percussioni.

Ero seduto ad ascoltare ma ora, senza rendermene conto, sono in piedi e il ritmo mi spinge a muovere la testa avanti e indietro.
Senza tregua la batteria disegna incastri pregevolissimi con quel motivetto di basso, scarno ed essenziale ma dannatamente incisivo. Hancock non ha pietà di me, mi trafigge con frasi secche, taglienti. Lui sa che può farmi male e gode con quella mano destra che sembra maledetta dal demonio.

Do un’occhiata al lettore cd e sono gia trascorsi nove minuti! Dove sono stato per questi nove minuti? Le gambe friggono, devono muoversi, non è un ballo ma è necessità di dimenarsi. Il piede destro tiene il tempo con qualche difficoltà, il busto si protende per poi ritirarsi e una serie di scariche elettriche mi attraversa il corpo: mio Dio, cos’è questo?
Questo è il Jazz, signori, il Jazz di quel diavolo di Hancock.

La canzone che mi tormenta è “Ostinato”, una suite composta in onore di Angela Davis, un’attivista politica (notizia tratta dalle note di copertina).
Ecco perché faticavo a tenere il ritmo: la suite è costruita in 15/4, anzi più correttamente direi trattasi di una battuta da 8/4 seguita da una battuta da 7/8. Fortunamente la suite scema dolcemente e lascia il posto al secondo brano di questo che più che un semplice disco è un monumento al jazz.
Siamo “You’ll know when you get there”, straziante quanto bellissima composizione dove trova posto l’infatuazione di Hancock per la filosofia indiana (è proprio lui il Mwandishi, la guida spirituale del disco).
Poi arriva il terzo e ultimo brano del disco: “Wandering spirit song”. L’inizio è agghiacciante: suoni grevi, atmosfera cupa, tristi note di tromba suonano quella che d’acchito sembra essere una marcia funebre. Ma anche qua i 21 (!) minuti della suite scorrono via vaporosamente tra fughe di tastiera, rullate impertinenti e dinamiche d’insieme da allibirne al solo pensiero.

Basta. Ora mi devo coricare. Ancora una volta Hancock mi ha trascinato alla frenesia, poi mi ha intimorito, poi mi violentato, poi si è scusato ed ha intonato una marcetta giocosa. Ora devo dormire per riprendermi dalle emozioni contrastanti che ha generato in me. Devo dormire.

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