C’era un dio, una volta. Anzi, ce n’erano tanti. E c’era speranza. Come in terra, così era in cielo.
Lotte intestine, scandali e miracoli. Una telenovela che, se non edificante, era quantomeno rassicurante. Delle ultime due guerre mondiali le invendicate vittime sono state la Fede, la Carità e soprattutto la Speranza, ultima dea. E la musica classica del dopoguerra non se ne è ancora riavuta, e vaga attraverso paesaggi di macerie e di dolore supremo, sui quali si levano albe ghiacce e calano tramonti sanguinari.
Grandezza, orgoglio, disfatta, pietà attraversano, quali costanti ideologiche, questi quattro saggi musicali di circa 25’ ciascuno, messi in scena da Robert Wilson e inaugurati nel 1989.
“De Materie” è un’apologia dell’idealismo e di coloro che son pronti a pagarne il prezzo. In “Hadewijch”, la seconda parte di questo dramma musicale, la soprano pare contare i morti, mentre tese dissonanze affilano la lama sulla quale si svenano le emozioni sociali. L’indiscrezione che l’architettura musicale di questa sezione rifletta le proporzioni della cattedrale di Reims (XIII secolo) conferma le linee già apparenti della ricerca spirituale, in lotta con i limiti della razionalità, abbozzate dal primo movimento. E’ la preponderante presenza del coro, insieme alla ripetizione misurata dei 144 a salvo strumentali che aprono l’opera, a legittimare il testo, e il tono, di insurrezione.
Pesantemente, insistentemente, offensivamente e, ogni tanto, bizzosamente percussiva, Part I è una mitragliata al rallentatore contro le nozioni musicali di aria e di ritmo. Forma e strumentazione della parte 3, “De Stijl”, che vorrebbe sfoggiare un’aria metafisica, derivano da una composizione pittorica di Mondrian. Stratificati in forma di scherzo, incastrato fra i due adagi di questa sinfonia contemporanea, sono elementi di musica colta: struttura a passacaglia, musica sulle note B-A-C-H, ed elementi di quella popolare: boogie-woogie, funk e un rap da salotto buono che ha lo stesso effetto di zia Clotilde in televisione, in tuta lamè, tutta compresa da un testo di 2Pac Shakur, sorpresa a rapparlo bene. Qualcosa finalmente si muove, e lo fa ricordandoci l’energia dei fiati e la baldanza delle percussioni dell’ottimo Steve Martland.
Part IV torna alle atmosfere funeree della Part II: su un’ elegia di lenti rintocchi si snoda l’epopea di Marie Curie, la sua devozione allo studio, il suo amore per Pierre e il senso di perdita irrimediabile dopo la sua morte. Questa passione forte, come quella dell’esaltazione mistica di “Hadewijch”, non trova corrispettivo nella musica monocorde, ostica, dura, fissa.
Questi moti del cuore vengono evocati forse per contrappasso, per mostrare la ferita di questo tempo: il sapere e non sentire, il potere e non volere, il seguire e non credere. Dare senza amare. Creare senza sperare. Perché ormai non ci sono più dèi a cui ricorrere.
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