Alan Wilder è tornato, a ben sette anni dal suo ultimo Liquid, con un lavoro che compie un ulteriore passo sulla strada della sperimentazione, tuffandosi questa volta nell'anima di un blues vivo e graffiante, che si fa portavoce di temi attuali e scottanti: intolleranza, discriminazione, pena di morte, conflitti religiosi. Il sub-umano è l'aspetto più crudele della nostra natura: esso si cela sotto la maschera della civiltà per esplodere negli episodi più feroci e drammatici che corrodono il mondo da millenni.

È necessaria una breve parentesi sul progetto Recoil.

Alan Wilder, membro fondamentale dei Depeche Mode dal 1982 al 1995 - noto per essere stato il maniacale "chirurgo del suono" al servizio della band britannica -, cominciò a produrre i suoi primi lavori solisti, caratterizzati da un'elettronica sperimentale intervallata da piacevoli momenti ambient, già sul finire degli anni '80.
Il 1992 fu l'anno del suo primo capolavoro, Bloodline, una versione più sperimentale dell'elettronica modiana stile Violator, forte di una geniale innovazione che farà di Recoil uno dei progetti più seguiti negli ambienti di nicchia. Wilder si avvalse in quell'occasione della collaborazione di cantanti quali Douglas McCarthy dei Nitzer Ebb, Toni Halliday dei Curve e l'allora quasi sconosciuto Moby.
Unsound Methods (1997) e Liquid (2000) non fanno altro che mostrare la vena più elettronica/sperimentale del musicista londinese, che riesce a sintetizzare i maggiori trend degli anni '90 (passando da un allucinato trip-hop ad un raffinato electro-funk, mentre si accentua il ricorso allo spoken world così come matura il fascino per le atmosfere jazz).

In subHuman, Wilder opta per il blues, ma non al fine di farne un puro pastiche.

Il sound di questo album è un sound crudo, grezzo, duro, che ricorda in alcuni episodi l'elettro-rock di Songs Of Faith And Devotion, ma che al tempo stesso riesce a disimpegnarsi in quello che Wilder più ama: le parentesi sperimentali, ricche di citazioni (art-rock, rock/blues, rock psichedelico), ipnotizzano l'ascoltatore, mentre un susseguirsi di loop ed effetti ricercati contribuiscono a creare quella che il musicista britannico definisce una "musica filmica".
Non si può negare che la tecnologia sia da sempre stata la sua più grande musa e che al tempo stesso una meticolosa cura per i dettagli ed un'estenuante ricerca del suono più originale abbiano reso Wilder uno dei musicisti più apprezzati. Egli stesso ha recentemente dichiarato di aver dovuto ritrovare una certa dimestichezza con le nuove tecnologie, dal momento che in un lasso di tempo durato cinque anni aveva dimenticato quasi tutto.

Wilder stesso non ama definirsi un "musicista elettronico", ma piuttosto "uno che sa far buon uso della tecnologia".

La sua apertura eclettica ai vari generi musicali lo ha portato a collaborare con il cantante blues Joe Richardson, autore di cinque testi di quest'album e validissimo musicista che ha contribuito a fornire le idee sulle quali Wilder ha costruito i suoi pezzi. Dopo aver portato a termine la prima fase di produzione, Alan si è recato in Texas, dalle parti di Austin, dove la band di Richardson ha suonato ogni pezzo. Wilder ha gradito molto questa session e l'album ha preso quindi una nuova direzione, in cui la musica suonata si fonde al pastiche tecnologico.

'Prey', primo singolo estratto, è un buon rock bluesato che si presta bene ad una resa visiva, così come '5000 Years', improntato sui conflitti di natura religiosa, in cui il vecchio jazz del sud si colora di rock, con un finale suggestivo scandito da bombe, urla di soldati, cori tribali e voci disincantate che sembrano essere quelle di giornalisti o politici - probabile che queste ultime siano campionate.
'The Killing Ground' è un gran bel brano in cui il blues della chitarra di Joe Richardson si confonde in un'atmosfera trip-hop dominata da slide guitar, organo ed archi.
Il pezzo migliore è probabilmente '99 To Life', in cui si parla di pena capitale - in particolare di un'esperienza reale che ha coinvolto un amico di Richardson. Un elettro-rock esplosivo, feroce, che non cade mai nel banale, sostenuto da una pregevole linea di bassi e da un'eccellente drum session.
'Backslider' è l'ultimo pezzo rock/blues dell'album, in cui l'attenzione dell'ascoltatore è catturata dall'incedere di un loop coinvolgente e da un sapore folk squisitamente americano.
All'interno dell'album trovano posto altri due brani, che spezzano la "linea blues" di Richardson. Si tratta di 'Allelujah' e 'Intruders', ai quali collabora la cantante britannica Carla Trevaskis. Nel primo troviamo un'atmosfera eterea che ricorda molto, nel sound, i Depeche Mode di Songs Of Faith And Devotion (Wilder non esita a riadattare anche un suono da lui creato per la modiana 'In Your Room'). 'Intruders' è un brano lento, onirico, in cui la voce della Trevaskis si fa ipnotica, come la parte finale - strumentale - del brano stesso, quasi una suite raffinata in cui echeggiano citazioni di rock progressivo e psichedelico e, come Wilder stesso afferma, un richiamo ai King Crimson.

SubHuman non è altro che l'ennesimo capolavoro del musicista britannico, disco che, nonostante le apparenze, esula dalla logica dell'arte fine a se stessa, per parlare al mondo attraverso una voce, ma anche attraverso i suoni.

Quest'album è una colonna sonora.
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