Undici album per una delle band più amate (ed odiate) nella storia della musica rock statunitense.

I Red Hot Chili Peppers ne hanno passate tante. Morte, dipendenze, cambi di formazione, fino alla virata pop rock (con conseguente successo mondiale) di “Californication” ed il successo trasversale che raggiunge anche chi era all’oscuro di quella pietra miliare che corrisponde al nome di “Blood Sugar Sex Magik”.

Secondo disco con l’ultimo arrivato Josh Klinghoffer alla chitarra, rimpiazzo di Frusciante dopo il suo (secondo) abbandono, questo nuovo “The Getaway” presenta un’altra novità molto importante: è il primo album a non annoverare come produttore Rick Rubin, rimpiazzato dal quotatissimo Danger Mouse (coadiuvato in fase di mixaggio dall’altrettanto importante Nigel Godrich, storico collaboratore dei Radiohead).

Scelta pesante, che indica una certa volontà di Kiedis e soci di dare una svolta ad un sound che dopo l’ultimo, sufficiente ma non certo fondamentale, “I’m With You”, risultava un bel po’ appiattito. Svolta che è arrivata solo in parte: le trame sonore, il cantato di Anthony che alterna spezzato e melodia, i vorticosi giri di basso di Flea sono ormai un marchio di fabbrica irrinunciabile per i peperoncini. Quel che è variato è il “vestito” dato alle canzoni, non più il funky pop rock delle produzioni con Frusciante, né tantomeno l’alt rock regolare dell’ultima prova in studio.

Rimane davvero poco dei Red Hot più classici. Il singolone “Dark Necessities”, già un piccolo instant classic, ricalca l’ormai riconoscibilissimo giro di basso della vecchia superhit “Can’t Stop” e ci costruisce sopra una melodia arricchita dal piano (novità già introdotta, a dir la verità, nel lavoro precedente), dando un’idea di cosa ci aspetterà nel resto del disco. “Goodbye Angels” è un crescendo che ricorda la vecchia “Goodbye Hooray”, ma con una marcia in più. Pochissime le concessioni al rock dritto per dritto, se si esclude “We Turn Red”, un funky rock che alla fin fine è la cosa più vicina alle loro vecchie produzioni (anch’esso, però, inframezzato da un paio di momenti di quiete), “Detroit” e la furiosa “This Ticonderoga”, con una strofa incalzante come un treno in corsa ed un curioso intermezzo saltellante da operetta.

L’opener “The Getaway” funkeggia ma in maniera molto edulcorata. “Sick Love”, attesa collaborazione con Elton John e Bernie Taupin, potrebbe essere benissimo un outtake da un disco anni ’70 dello storico cantautore britannico, e sorprende con un bel solo di sintetizzatore. “Go Robot”, già scelta come prossimo singolo, tiene fede al titolo e contrappone ad una strofa tipicamente kiedisiana un bel bridge dominato da synth e tastiere.

“The Longest Wave” è una ballad da annoverare tra le migliori cose del disco, con un andamento ondeggiante ed un ritornello da imparare a memoria, così come “Feasting On The Flowers”, più beatlesiana. Purtroppo l’album infila due episodi un po’ stanchini, prima di chiudere alla grande con “Dreams Of A Samurai”, una lunga cavalcata psichedelica che anticipa scenari molto interessanti per il futuro dei peperoncini, nel caso decidano davvero di osare.

Insomma, una bella rinfrescata al sound per i Red Hot, ma senza esagerare. Vedremo se questo è l’inizio (per quanto buono) della fine, o se i quattro (non più) ragazzi decideranno per un proseguo di carriera con qualche sorpresa in più.

Miglior brano: Dreams Of A Samurai

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