Sono tornati anche i Redemption, con il loro prog-metal gagliardo e oscuro ma fedele a stilemi piuttosto classici, ancora una volta con la voce di Tom Englund, ormai stabile rimpiazzo di Ray Alder.

Loro sono un’altra di quelle band da cui non ci si aspetta nulla di particolarmente nuovo se non una robusta riconferma. L’album uscito nel 2018 riportava un po’ di potenza che si era persa per strada ed era sicuramente migliore dei due album precedenti. Rieccoci dopo 5 anni a parlare di “I Am the Storm”, ottavo album in studio dei Redemption.

Titolo e copertina sono perfettamente azzeccati. Una via allagata da un temporale, un uomo nero che raccoglie fulmini e li scarica lungo la via distruggendo i vetri delle abitazioni. La sensazione che si percepisce all’ascolto è proprio quello di una tempesta perfetta, metterlo ad alto volume durante un acquazzone non è affatto una cattiva idea. I suoi ritmi forsennati, le sue chitarre affilate e frastornanti e le tastiere grigie e gotiche sembrano voler ricreare proprio quell’atmosfera perturbata, un tornado lungo e ben organizzato. Questo spirito si mantiene più o meno per tutto il minutaggio ma non mancano i momenti in cui la tempesta sembra calmarsi e si intravede qualche timida schiarita, ma ha una durata limitata, poi arriva un nuovo corpo nuvoloso bello carico pronto a riversarsi sull’ascoltatore. Insomma volevano creare il disco temporalesco per eccellenza e ci sono riusciti. Ma fino a che punto? Perché descritto così sembrerebbe un capolavoro, invece i difetti sono diversi, anche palesi.

Personalmente suddivido i brani per tipologie (pratica abbastanza comune nel mio lavoro di analisi). Ne abbiamo due prettamente metal, molto dirette e taglienti, la title-track d’apertura e “Resilience”, delle due la più meritevole è senz’altro la prima perché è la più potente e limpida dai tempi di “Snowfall on Judgment Day”, maltratta le chitarre in una maniera diversa ma lo fa senza pietà, come vorremmo che i Redemption suonassero quasi sempre.

Poi abbiamo i tre brani più lunghi, dove la band può sbizzarrirsi un po’ di più ed ampliare bene lo spettro sonoro e ritmico. Vi compaiono più spesso parti lente e notturne e aperture orchestrali ma anche troppi, troppi assoli. La composizione di 12 minuti “All This Time (and Not Enough)” è senz’altro la più riuscita, la più dinamica, quella dove ci si muove con gran disinvoltura dalla cavalcata metal alle fughe di piano, dalle scale dreamtheateriane di puro prog-metal fino allo slap di basso; quella di 14 minuti “Action at a Distance” invece sembra allungata artificiosamente, è senz’altro una delle più riuscite, ha delle bellissime aperture da colonna sonora hollywoodiana ma anche troppe cose ripetute all’infinito senza che ve ne sia bisogno; ma anche quella di 8 minuti “Remember the Dawn” sembra avere qualche orpello di troppo.

Azzeccatissima invece “The Emotional Depiction of Light”, il brano melodico dell’album, quello che rappresenta probabilmente la quiete, la tregua nella tempesta, colpisce con la sua grigia tranquillità e anche quando sale di intensità mantiene quel senso di pacata inquietudine. “Seven Minutes from Sunset” è invece il brano che riassume tutto concentrando in pochi minuti.

Di “The Emotional Depiction of Light” è presente anche un remix ma è palesemente inutile, mi concedo persino la presunzione di affermare che sia da skippare senza discussioni, non si riesce proprio a capire a cosa serva e cosa aggiunga davvero alla versione standard, non pensavo che esistesse qualcosa di più inutile della seconda versione di “We Care a Lot” dei Faith No More.

E poi ci sono due cover davvero niente male. Da non amante delle cover a completamento di un album di inediti (ma in generale non sono esattamente un promotore dell’appropriazione del brano altrui) pensavo che sarebbe stato duro reggerne addirittura due, invece i Redemption si mostrano abili nel far rivivere brani di altri sotto il proprio ombrello sonoro. La morale è: se proprio devi cerca almeno di dar loro uno stile tuo. Nel precedente album avevano coverizzato “New Year’s Day” degli U2 e già non era male anche se si erano più che altro limitati ad inserirci dei riff metal. Qui invece “Turn It On Again” dei Genesis viene totalmente ridisegnata, sembra davvero un altro brano, lo ascoltiamo in una veste che mai avremmo immaginato, un brano da alta classifica che viene sorprendentemente trasformato in una composizione gothic metal diretta ed altrettanto tempestosa. La cover di “Red Rain” di Peter Gabriel è meno clamorosa e appare meno stravolta ma si lascia comunque ascoltare con piacere.

La relazione che abbiamo steso ci indica quindi un solido album prog-metal fiero del suo classicismo, del suo suono potente e della sua atmosfera oscura. Però i difetti ci sono e meritano un capitolo a parte. Abbiamo citato ad esempio i troppi assoli: sì, ci sono troppi assoli, soprattutto di chitarra; che gli assoli siano una vetrina per i chitarristi è risaputo, il problema è che qui sembrano spesso privi di troppa anima, sono cascate di note poco fantasiose e ripetute numerose volte, allungano inutilmente le tracce e danno come l’idea di essere inseriti a forza per sopperire ad una mancanza di idee, per allungare il minutaggio. Non scherzano nemmeno le parti di batteria: rullate megagalattiche che si ripetono ogni tot di battute; d’accordo rendere il drumming vario ma facendo così si finisce per spezzare troppo il ritmo e disunire il brano. Un momento, mi sembra un film già visto… sì, sì, “Black Clouds and Silver Linings” dei Dream Theater, è lui, stesse gare di assoli, stesso drumming eccessivo, stessi riff dark metal, stessa atmosfera horror e tempestosa. Se “I Am the Storm” fosse stato realizzato dai Dream Theater ne avremmo chiacchierato per diverso tempo, avrebbe scatenato su forum e social un agguerrito scontro fra fazioni. Altro difetto che salta all’orecchio è legato ancora una volta alla produzione; non so cosa sia successo dopo i primi quattro album, forse i continui cambi di produttore, ma il punto forte dei Redemption prima maniera era proprio quel sound pulito e tagliente, i riff di chitarra ti travolgevano davvero e ti entravano nella pelle, dopo non sono più riusciti a replicarlo e ha prevalso quella sensazione di registrazione troppo cupa e poco nitida.

Ma evitiamo di chiedere la luna, è il classico disco da ascoltare lasciandosi coinvolgere senza troppe pretese.

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