Tra i tanti, troppi dubbi che turbano le mie giornate c'è, in effetti, una certezza che si staglia sempre all'orizzonte: un pompino (ben fatto) è uno dei pochi, pochissimi piaceri della vita senza controindicazioni.

E ringrazio il mio dio (chiunque sia e dovunque si trovi) per avermi donato la saggezza di sbriciolare il fumo e mischiarlo con le pagliuzze delle mie sinapsi.

Senza dimenticare il Dio del mio dio (il divino Caso) che elargisce, a volte, regali particolarmente graditi: una mattina completamente dedicata a me stesso.

In questo disco non c'è nulla che non abbiate mai sentito.

Calde spire in loop, variazioni all'organo dei rituali psichici degli Spacemen 3 di "Dreamweapon" vengono maculate da un tribalismo forsennato prima e da gotiche cadenze marziali dopo.

Stasi malate. Torbide pozze elettrostatiche in cui il chitarrismo circolare di un Roy Montgomery regge le aeree torsioni vocali di una Elizabeth Fraser in preda ai fumi di nervature al limite del glitch.

Un cielo stellato gemello siamese di quella "Bismillahi 'Rrahman 'Rrahim" che nobilitava lo splendido "The Pavilion of Dreams" di Harold Budd cede gradatamente il passo a reminiscenze doorsiane: un divertissement tra un Manzarek in pieno controllo e un Morrison narcolettico, svuotato da ogni skills di attore consumato qual'era.

Ma tutte queste sono considerazioni ex post perché, nel mentre, ho semplicemente goduto: il sound mi aveva acchiappato.

Un disco (ben fatto) è uno dei pochi, pochissimi piaceri della vita senza controindicazioni.

Comunque un pompino è meglio.

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