Dopo aver concluso “Automatic for the People”, i REM non fecero nessun tour promozionale, e dopo qualche mese di meritata vacanza, si rimisero subito al lavoro – invece di godersi lo straordinario successo di pubblico e di critica di  “Automatic for the People”. Eccoli  in studio, nella primavera del 1993, per il terzo album in tre anni. E tirarono fuori  un altro  gioiello.  

Si parla di tutto in queste canzoni: della nuova condizione di star da consumo strappate per la giacca, della morte di un amico,  del sesso diventato il dio della società attuale, dell’accettazione della propria insicurezza con la quale si deve convivere…  Un disco come sempre maturo, e di spessore.

“What’s the Frequence, Kenneth?”. Direi: il genio melodico dei REM, in un bel rock. Un singolo godibilissimo e anche di spessore.  Che chiedere di più? Rispetto a quello che viene dopo, però, questo pezzo, che per molti è un capolavoro,  è una cosuccia da poco.

“Crush with the Eyeliner”. Senz’altro un’eccellente canzone,  ma non è un capolavoro perché non dà emozione.  Non mi piace quando non sento bene la voce di Stipe.  Qui si sente che è lontana dal microfono e si perde nell’aria.   Nel cambio le cose migliorano un po’ con  il suo controcanto  che ridà vita al pezzo. Non serviva la luna per renderlo più vivo.  Ma forse furono i REM a volerla così  “distaccata”.

“King of Comedy” estremizza la freddezza della precedente canzone.  Qui Stipe sembra un robot che canta.  Preferirei un parlato riflessivo  senza voce ovattata,  come in “E-bow the Letter”. In ogni caso, non è da buttare.  Semplicemente non la ascolto mai.

“I Don’t Sleep, I Dream”. Per me il punto più alto dell’album. Anche qui non c’è melodia; Michael parla, ma questa volta senza voce ovattata.  Non c’è bisogno di melodia per emozionare. Come Lawrence Olivier era capace di portare alle lacrime le persone semplicemente recitando l’alfabeto,  così  Stipe aveva il dono di emozionare parlando. Dal punto di vista musicale il pezzo  è un “capolavoro di sobrietà”,  una piccola opera d’arte. La batteria magistrale, l’arpeggio bellissimo di Buck supportato da un piano quasi “invisibile” di Mills; poi sul ritornello,  col quasi falsetto di Stipe accompagnato dall’organo e dalla chitarra distorta,  la canzone si eleva ancora di più. Semplicemente stupenda.

“Star  69”. Questa è l’unica vera caduta dell’album. “Monster” è un album profondamente lento e riflessivo, e forse i REM capirono che, oltre all’intro,  c’era bisogno di almeno un altro pezzo pepato,  per non essere accusati di “pallosità”. Questa canzone non ha per me altro valore. Non amo molto canzoni così accelerate. Mi piace l’accelerazione, ma non deve  essere unita al cattivo gusto.   

“Strange Currencies” è  la “riscrittura metallica” di “Everybody Hurts”. L’incanto acustico e melodico della canzone del 1992  non c’è,  ma quella canzone era un miracolo. Questa del 1994  è “solo” uno splendido gioiello. Tra le più belle mai registrate dei REM.

“Tongue”. Qui sono il piano e l’organo uniti magistralmente ad accompagnare il falsetto di Stipe. In effetti Michael poteva cantare anche senza il falsetto,  con la sua splendida voce nasale,  e forse sarebbe stata ancora più emozionante di quanto già non sia. Così com’è, è un capolavoro di delicatezza - che non scade mai nel ruffiano.

“Bang and Blame”.  Un altro gioiello.  La chitarra in una specie  di inquietante vibrato,  e la voce malinconica come nei migliori pezzi di Stipe.   Se vogliamo spaccare il capello in quattro,   il ritornello  si prestava ad uno delle loro melodie.  Qui invece è forse troppo duro.  Un finale (musicale) fatalista e da brividi  conclude in modo stupendo il pezzo.

“I Took Your Name” non raggiunge la bellezza delle canzoni precedenti, ma rimane un bel rock, di spessore, con un ritornello memorabile, sopportato dalla chitarra distorta di Buck nelle strofe, e dai suoi brevi assoli nei ritornelli.  

“Circus Envy”. Come “King of Comedy”: non è una da buttare via, ma non l’ascolto quasi mai. Una canzone con un tema così importante come l’invidia è stato messo in un pezzo che non entrerà mai davvero nel cuore - di sicuro non nel mio.  

“You”. Uno lento rock davvero bello. Cantato molto melodico,  forse anche troppo. Ritornello superbo, emozionante pur rimanendo sobrio. Per quanto bella sia questa canzone, non doveva stare alla fine. Il finale d’obbligo doveva essere “Let Me In”.

“Let Me In”, dedicata a Kurt Cobain, che adorava i REM tanto da dire: “Vorrei morire dopo aver scritto un paio di canzoni come le loro”. Non c’è molto da dire su questo pezzo. Lo sto riascoltando ora, mentre scrivo, e ancora oggi il vocalizzo di Stipe, a 30 secondi dall’inizio, mi commuove. La canzone sarebbe un capolavoro  anche se fosse un unico lungo vocalizzo. Quando poi, nel finale, l’organo si unisce alla chitarra l’emozione cresce, se possibile, ancora di più.  

Un disco con 7 grandi pezzi, e due ottimi (“Circus With Eyeliner”, e “I Took Your Name”) non può non meritare un 5, anche se un paio di canzoni potevano risparmiarsele. Così sarebbe un 5 pieno.

Certamente un vertice musicale – benché dal punto di vista emozionale non raggiunga “Automatic for the People”.  

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