Delle volte penso che, in fondo, un critico musicale qual è il Rizzi può sembrare un pirla: quel misero, unico pallino tondo a quel capolavoro ch'è "A Passion Play" dei Jethro Tull è esemplare, nel dimostrare questa mia ipotesi. Poi, per certi versi, in realtà le idee cambiano: non tanto per i dinosauri, dei quali si sa tutto, quanto per i millanta gruppettini della scena underground; in fondo sovente è un peccato non siano conosciuti, ed allora ecco due righe in questo senso appaganti. Si scoprono così formazioni dalle più svariate composizioni strumentali, finanche a "mostruose" coppie che portano a casa un ellepì con la sola tastiera, nemmeno fossero il Duo Oleggio - uno scemo e l'altro peggio - nel tour dei banchetti nuziali. Certo, questo è un estremo: vi è nel mezzo un buon numero di band più o meno note in grado di ritagliarsi il loro dignitoso ruolo nella storia del più cervellotico ed appassionante dei generi musicali. Una di queste (invero ben più di una band di nicchia: più appropriata è una collocazione nelle schiere secondarie della legion progressiva) ha un nome decisamente evocativo, ed una voce che vale la pena di ascoltare. Questa formazione è quella dei Renaissance.
Nata come formazione folk-sinfonica sul finire degli anni sessanta da un nucleo che fu degli Yardbirds (Relf e McCarty), questa band si frantuma quanto prima, durante la realizzazione del secondo ellepì, "Illusion" del 1970. Avanti il prossimo, la band si rinnova. Completamente. La nuova line-up, tuttavia, non prende forma definitiva finché ad un provino non compare una graziosa ragazza dal lunghi capelli. Lei è Annie Haslam: in poco tempo diventerà probabilmente la donna più importante dell'intera scena progressiva (al limite "contrastata" dalla sola Sonja Kristina dei Curved Air). La sua voce personalissima, melodica ed estesa, è il ricamo sulle sinuose trame intessute dalla chitarra di Michael Dunford e dalle tastiere di John Tout. L'ascesa del gruppo non lascia indifferenti gli appassionati: la particolare musica dei Renaissance, scia sinfonica sospesa tra barocco ed esotico, si porta a compimento in una manciata di notevoli ellepì, prima di cadere nella sua stessa magniloquenza e risalire verso una più facilmente rinnovabile e rappresentabile forma canzone, peraltro con notevoli riscontri economici.
A chiudere il periodo più prettamente progressivo, e quindi vertice dell'inevitabile parabola, un ellepì uscito nel millenovecentosettantacinque per una tal casa nota al mondo come BTM. "Scheherazade & Other Stories" richiama già dal titolo esotiche terre ed impressioni da mille-e-una-notte. L'ellepì, giocato su quattro brani, regge sulla suite in chiusura e sull'iniziale "Trip To The Fair": è questo un ottimo brano, aperto da striduli accordi di tastiera e retto dalla bellissima voce della Haslam in un clima da mercato nel regno del principe Aladdin; da qui, prende piede una bella apertura progressiva dove si erge maestoso un coro assai piacevole. "The Vultures Fly High" è un breve intermezzo, antesignano forse del suono che li caratterizzerà nel futuro prossimo, ma non per questo meno intenso. Tocca invece i sette minuti "Ocean Gypsy", ipnotica melodia per voce e tastiere che divampa in un'ariosa ballata, con in evidenza il bel gioco di basso di Jonathan Camp e l'incisiva batteria di Terence Sullivan.
Ma è giunto il tempo, ormai: "Song Of Scheherazade" svetta maestosa e ridondante nelle sue sonorità, il basso è un cuore pulsante, le voci maschili salgono ad accogliere la calda voce di Scheherazade, prima che essa prenda il volo sul tappeto volante delle tastiere verso il regno progressivo, ove il sinfonismo creerà castelli di insostenibile intensità.
Un buonissimo album sicuramente, ad emblema di un gruppo assolutamente da rivalutare per quanto di innovativo (perché no?) o quantomeno di buono ha creato nello sfavillante regno progressivo, nel breve intervallo di vita in cui esso divenne immortale.
Se poi il Rizzi di pallini ne mette tre, buon per lui. Io il quarto a Scheherazade lo do volentieri.
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