Considero Renato Zero un magnifico provocatore. Nel 1973, pochi anni dopo l’avvenuta emancipazione femminile targata 1968, incise una canzone travolgente, “No! Mamma, no!”, forse, ancora oggi, il suo brano più riuscito. Era un Renato Zero superbo, eccezionale, quasi metafisico. Un provocatore che orientò i gusti del pubblico verso un travestitismo esagerato ma non volgare, un modo di concepire la sessualità non più bigotto o rigidamente cattolico. “No! Mamma, no!” fu, per moltissimi, un tormentone che andava ben al di là della semplice valenza musicale: era uno slogan (quasi) politico che doveva, e voleva, arrivare ai piani alti del Governo e scuotere le coscienze un po’ assuefatte di tanti cattolici praticanti troppo imbambolati da santi, preti, vescovi, papi e Vaticanate varie.
Cos’ è rimasto oggi di quel Renato Zero? Poco, quasi niente. Oggi Zero non è più Zero: è il signor Renato Fiacchini, borghese di buona famiglia, amante della moda casual e padre di un figlio adottivo che, ne sono quasi certo, fra un po’ di anni non avrà difficoltà ad entrare nello star system musicale italiano. Fonopoli è ancora un sogno realizzabile (in parte realizzato) ma la ribellione e la vitalità del sorcino venticinquenne ha fatto posto ad una più prevedibile banalità tipicamente cinquantenne.
“Cattura” è il suo penultimo album. Malgrado il lancio pubblicitario senza precedenti (diretta radiofonica su Rai Radio Due con anteprima di ogni singolo brano; comparsate varie da Giorgio Panariello a “Torno sabato”; frequenti ospitate a “Top of the pops”; manifesti affissi un po’ ovunque fra Milano, Roma e Napoli) “Cattura” non ha né entusiasmato né ridato lustro ad un artista un po’ troppo imborghesito. Di questo album resterà solo qualche frammento. Le melodiche sviolinate di “I miei miti” (forse la canzone più poetica, ma non migliore, dell’intero album); la sorprendente vivacità martellante di “Come mi vorresti”; le belle parole di “Magari” e la trascinante “A braccia aperte”. Non c’è che dire: bella musica, o quasi. Fra batterie e chitarre acustiche, violini e pianoforti, Zero ci dà dentro alla grande: peccato che i testi siano il più delle volte bislacchi e ripetitivi (tratto da “A braccia aperte”: “A braccia aperte/un sorriso e un po’ più d’umanità”: non vi ricorda vagamente “Sogni di latta?”). Per il resto calma piatta. “C’è fame” e “Fuori tempo” non meritano nemmeno l’ascolto, mentre “Naturalmente strano” e “L’altra sponda” vorrebbero trattare argomenti seri (l’omosessualità, la diversità latente) ma rischiano il ridicolo involontario. Tutto il resto è silenzio, direbbe Shakespeare. Per me, cresciuto a pane e Zero, è un profondo dolore veder annaspare uno dei miei idoli fra idiozie e banalità assortite: “No! Mamma, no!”, andare avanti così non si può.
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