Un dark-folk di rara bellezza, un goth-country d'altri tempi, alt-country sperimentale: chiamatelo come volete questo "Black River Falls" (Coo-Coo-Birds, 2001), un disco dove si respira l'aria di vecchie e polverose bettole, whiskey di serie b, emanazioni ascellari e l'alito fetente di una massa di yankee ubriaconi. Odori che ci appaiono alla stregua del più prestigioso profumo se poi ad accompagnarli sono queste viscerali muzak, sporche e fangose, tra mazurke, sbilenchi country western, excursus rockabilly e influenze folk europee alias zingarate klezmer e cavalcate gipsy, quest'ultime talmente sentite, rurali e passionali da fare invidia alle più navigate ensemble gitane della vecchia Jugoslavia. 

Una questione tutta americana comunque quella di Reverend Glasseye and his Wooden Legs, anzi probabilmente il disco più americano che mai mi sia capitato d'ascoltare, roba che Springsteen e Dylan al confronto fanno neomelodica napoletana. La parola chiave è Dark Cabaret, un movimento quasi ai margini del mercato con molte band meritevoli (Dirty Granny Tales, The Deadfly Ensemble, Circus Contraption - e volendo anche le ultime discusse e rinnegate cose dei nostrani Spiritual Front - quelle a mio parere più degne di nota, sebbene tutte abbastanza diverse tra loro). A spiccare tra i deliziosi e ricchi arrangiamenti, i fiati, banjo, organi e i ritmi swing che la band di Denver propina è senza dubbio la voce di Adam Glasseye, col suo timbro rauco, sanguigno, vibrato e baritonale, regolare e preciso come un orologio svizzero nel vomitare interpretazioni di grande spessore, nonchè una padronanza della scena più unica che rara, anche quando come accade su "50 % Murder" e "3 Ton Chain" ad affiancarlo è la voce altrettanto fumosa, deviata e affascinante di Wendy Emerson, sorta di reincarnazione in gonnella di Tom Waits che nella sua sporadica apparizione - principalmente si occuperà di vibrafoni e piano - ce la metterà tutta per farsi notare, pur non raggiungendo mai le gesta del reverendo. Un reverendo che tocca le sue vette nel morboso country di "Penitentiary Highball" (bellissimo l'arrangiamento con slide di chitarra abilmente sospesi tra tradizione hawaiiana e quella western), "Midnight Cabaret" (i Gogol Bordello più sobri del solito), la splendida "Seven Little Girls" (strambi richiami a sonorità di matrice psychobilly, eccelso sul finale in un lamento stonato che ha del surreale, e che richiama alla mente i più folli Sun City Girls cosiccome le gesta del leggendario Mariottide) ma soprattutto la grandiosa "Carnival of Pills" dove, abbandonati per un attimo i toni marci e cabaret, regala una prestazione da cantore navigato, tra Nick Cave e David Eugene Edwards, intensa, ardente e col gusto del fatto in casa, del naif, del lo-fi vero e proprio, nessuno spazio per suoni-posa indie e press-photo studiate quanto stucchevoli.

Reverend Glasseye è in fin dei conti uno sfigato, anti-star per eccellenza, uno con un immagine talmente scarsa da rendere le comparse delle female-fronted bands con superfiga al seguito alla stregua di un David Bowie, ma autore di una musica realmente perfetta e di gran classe. Beh oddio, mica tanto.

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