Da El Paso (Texas) a San Francisco, con la missione di lasciare il suono tex-core, così imbevuto di whiskey e tequila, a macerare nella notte inquieta della metropoli californiana. Altre band hardcore native dello Stato della Lone Star erano migrate verso la ben più liberale Frisco, ad inizio anni 80: Dicks, Stains/MDC, DRI, Verbal Abuse. A metà decennio, toccò ai Rhythm Pigs, band funambolica come poche, clamorosamente ignorata da buona parte delle enciclopedie rock, eppure artefice di una musica avveniristica. Sarebbe riduttivo parlare di "southern-core", ennesimo ossimoro stilistico e concettuale, reso possibile da chi, sperimentando coi soliti tre strumenti rock, non si poneva davvero limiti. Con il loro primo, omonimo e migliore album, datato 1984, il power-trio da El Paso comprime e dilata, a seconda dell'umore, abulici poemi dello sbandamento, rifrange le luci artificiali di insegne e lampioni in camaleontiche ed inebrianti partiture, distilla le lacrime amare di una generazione sconfitta, sublimandole in brani che, nonostante i frequenti cambi di tempo, i ripensamenti, gli andirivieni, non disperdono un solo grammo di intensità.
Erano Ed Ivey (voce e basso), Greg Adams (chitarra), Jay Smith (batteria). Tre illustri sconosciuti, ma capaci di tutto. Il telaio ritmico messo in piedi da Ivey e soprattutto Smith è un continuo tira e molla, un eterno riposizionarsi, come quando nelle torride notti estive ci si rigira nel letto ogni trenta secondi, perennemente scomodi e insoddisfatti. La chitarra di Adams, per quanto settata sulle frequenze del blues-rock più sudista, è sfocata e nauseabonda, in preda all'alcool e ad un sentimento fatalista conteso tra Flipper e Mission Of Burma. Le sfibrate corde vocali di Ivey, infine, suonano come se Lee Ving dei Fear fosse stato pestato a sangue per averla sparata un po' troppo grossa; o come un Mike Palm degli Agent Orange dopo aver emesso l'ultimo, inutile "grido d'aiuto in un mondo impazzito".
Sonnambulismo, impotenza, solitudine, fiacchezza, qualche volta ansia: questo esprimono i Rhythm Pigs. Vagare con se stessi, nel cuore della notte per le vie semi-deserte di una città qualsiasi, caracollanti per il tasso etilico e messi al tappeto da una gara, la vita, di cui non abbiamo mai capito le regole. Eppure costretti a sopravvivere: questo è "Human Drama", il capolavoro assoluto del disco, inaugurato da una torvissima slide-guitar, trascinata di peso sui binari di un wave-blues illuminato al neon, per poi arenarsi in un ritornello che vale come una scrollata di spalle. A fronte di brani come questo, vengono in mente i Big Black di "Bad Houses", ma anche alcuni film di Martin Scorsese. Ovviamente "Taxi Driver", ma non solo. Anche il para-medico protagonista di "Al Di Là Della Vita": in "Six", la chitarra sembra davvero l'eco di un'autoambulanza, allucinata, infernale, mentre Ivey ancora una volta conta le pecore invano.
Qualche volta però sono gli altri a prendere la sbornia triste e noi siamo chiamati ad assistere allo spettacolo: "Conditional Love" è lo sproloquio di un ubriaco fradicio, dopo ore trascorse in un bar di periferia, incapace di reggersi in piedi, ma con un estremo bisogno di comunicare e condividere il proprio malessere. Sballottato nel consueto elastico di pause e riprese, è un brano che non perde mai immediatezza e sfrontatezza: hardcore, noise, indie sono tutte parole senza senso a fronte di pezzi come questi. La tendenza dei Rhythm Pigs a svoltare bruscamente, senza mettere la freccia, quando non addirittura a fare inversione ad U, emerge con la massima efficacia in due esemplari momenti: "Taxi Cab" prova a pedinare un derelitto che si affanna tra una rincorsa e l'altra, poi tira il fiato e si sdraia sul marciapiede; "Searching For Myself", fa il percorso inverso, prima stendendo un mantra e poi attorcigliandolo.
Tuttavia non c'è solo commiserazione in questo disco. Perché qualche volta bisogna reagire. O almeno provarci. Se "Machines Are In" sfodera inopinatamente un ritmo mozzafiato, quando in realtà ci sarebbe ben poco da pogare, il poderoso funk-core di "Dr. Harley" e soprattutto di "Break Or We'll Break Your Face" batte i NoMeansNo sul loro stesso terreno. Non è mai un crossover sterile quello dei Rhythm Pigs, né un insipido minestrone di generi: c'è sempre una grande volontà comunicativa e un'espressività che trae forza dalla sincerità dell'ispirazione, prima che dalle doti tecniche.
Almeno in questo album. Il successivo "Choke On This" (1986) infatti perderà buona parte di questa forza, adagiandosi su di un malizioso revival ora rock'n'roll, ora southern, ora psichedelico, allungando il brodo e smarrendo l'afflato esistenziale. Ma il loro esordio resta un notevole quadro espressionista dell'umana infelicità, l'onesto contributo della cultura hardcore ad un universo di sensazioni che, ancora oggi, troppo spesso si crede fuori dalla portata di umili musicisti rock.
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