"E chi è costui?", si chiederanno i più. Cercando di spiegarvelo, vi dico che questa sua ultima creazione è stata un successo di critica. Menestrello, fatto e finito, molto fuori dagli schemi, il ragazzo è nel mondo musicale da parecchio, e la gavetta l'ha fatta ormai da quel dì. Chitarrista di tutti, ha collaborato come session man con i "grandi" delle classifiche come, tra i tanti, Robbie Williams, Pulp (con cui, tra l'altro, ha un legame che va oltre la sporadica apparizione) ed anche Robert Plant, ultimo in ordine di tempo. Da tempo aveva già qualcosa nel cassetto per sé, ma aspettava solo il momento propizio per mettersi in proprio. Nel 2001 pubblica il primo lavoro: e quello di cui vi parlo è già il terzo nel giro di quattro anni (quarto se si considera l’ omonimo mini album uscito ad inizio carriera). Timido e schivo, antidivo per carattere, non rincorre il successo, non smania per le attenzioni dei media e del pubblico: prosegue dritto per la sua strada proponendo la sua musica che, nonostante gli anni passino placidamente, è, più o meno, sempre quella. Fatta di canzoni d'amore e basta, perché é quello che lui vuole proporre.
Nulla di nuovo, visto che la tematica è la stessa scelta dal 99, 9% di chi fa musica. Ma lui ci mette "quel" qualcosa in più che fa la differenza, anche nei testi. Traendo chiaramente ispirazione alla musica americana degli anni cinquanta e sessanta, fatta dai Presley, dagli Orbison, dai Cash e dai Boone, confezionando brani dal sapore country e country/western soprattutto in "Just Like The Rain" e "I Sleep Alone", si costruisce uno stile così imprecisato e indecifrabile che mette in crisi chiunque tenti di etichettarlo e di imbrigliare la sua musica all'interno di una precisa definizione. C'è spazio, infatti, anche per qualche lontano richiamo ai suoni della madrepatria Inghilterra e per quel Cohen che sembra sempre osservare da dietro l'angolo in "The Ocean", il pezzo migliore a mio giudizio. È spesso struggente e malinconico con quella sua voce, come in "Tonight" e "Who's Gonna Shoe Your Pretty Little Feat": ma tutto questo non è sinonimo di tristezza. Con l'esclusione di "Coles Corner", apertura e primo singolo estratto in cui gli archi trionfano, su tutte le tracce troviamo il suo strumento in primo piano. Preponderanti ma non invadenti, chitarre di tutti i tipi e con tutte le distorsioni ed effetti: come in "Hotel Room", dove si riascoltano i suoni tanto cari ai Los Indios Tabajaras (se li conoscete, avete capito dove voglio andare a parare con questa recensione). La conclusiva e strumentale "Last Orders" vive tra gli echi di un pianoforte spettrale e strani riverberi somiglianti al vento turbolento che spazza il Coles Corner di Sheffield, posto realmente esistente nella città di provenienza del nostro, luogo di incontro, crocevia di tante storie, di tanti racconti, di vite normali, di alterne fortune e vicissitudini.
La produzione di Hawley, insomma, ci riporta a quei cantanti che spesso vediamo, confrontandoli con il panorama musicale attuale, come dei dinosauri. Forse è questo ritorno al passato il suo punto di forza: nell'epoca in cui tutti si aspettano la geniale innovazione, lui propone, rivisto e corretto, il vecchio, che troppe volte dimentichiamo e disconosciamo come padre del nuovo, che molto spesso non avanza.
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