Il chitarrista, tastierista, fondatore e compositore degli Haken ci prova da solista. Non saprei dire quanto bisogno avevamo di una dimostrazione individuale per determinare la sua bravura, Richard Henshall è negli Haken la mente principale ed il principale compositore, il suo estro emerge lì già alla massima potenza e gli Haken sono non a caso diventati una delle band più importanti per la scena prog del decennio appena trascorso; ma una volta ottenuta questa dimostrazione ci si rende conto che Richard Henshall sa in realtà offrire di più. Quando si realizza un disco solista spesso lo si fa proprio per mostrare in maggiore libertà quello che non sempre si riesce ad esprimere con la propria band, dove il tuo gusto deve per forza di cose incontrare quello degli altri membri.
Per farlo si serve di personalità “amiche”, ripiegando addirittura sui suoi stessi compagni, basti pensare che il bassista di ruolo è proprio Conner Green, mentre il cantante Ross Jennings è ospite in una traccia. Personalità amiche anche quelle provenienti dalla band Bent Knee, che ha fatto da spalla alle recenti tournée degli Haken. Il batterista di ruolo è Matt Lynch dei Cynic, fra gli altri ospiti invece il più illustre è il tastierista dei Dream Theater Jordan Rudess, presente anche un pizzico di Italia con il chitarrista Marco Sfogli.
Così come negli Haken anche qui la presenza della componente metal non è omogenea, con brani che si possono tranquillamente definire progressive metal e altri meglio etichettabili come progressive rock, nella prima categoria facciamo rientrare brani come “Cocoon” e Twisted Shadows” mentre altri come “Silken Chains” e “Lunar Room” rientrano più nella seconda etichetta. Tuttavia quando la componente metal affiora lo fa entrando a gambatesa, una otto corde pompatissima, con staffilate taglienti di derivazione djent. Ma c’è di più, in particolare si registra una certa componente jazz/fusion; sembra che sia proprio la componente fusion a far la differenza, sembra che sia proprio questo l’aspetto su cui il musicista intendeva far leva, un’influenza che già negli Haken era possibile scorgere (pensiamo a brani come “The Point of No Return” e “Falling Back to Earth”) ma che qui viene approfondita al punto che potremmo inserire tranquillamente il jazz/rock tra i generi dell’album, non escludo che gli amanti della fusion potrebbero trovare l’album interessante. Spuntano anche i crescendo sognanti tipici del post-rock, evidenti in “Limbo” e “Afterglow”, brani più brevi e meno incentrati sulla tecnica ma potenzialmente più in grado di coinvolgere emotivamente l’ascoltatore. “Lunar Room” ha addirittura una parte con cantato rap che al primo ascolto spiazza chiunque; apro una parentesi per far notare che effettivamente gli inserti rap non si trovano molto frequentemente nel prog, ricordo pochi casi, celebri i rapping di Daniel Gildenlöw dei Pain of Salvation (come quello in “Spitfall”) o quello in “Roll the Bones” dei Rush, poi possiamo citare quello in “Artificial Paradise” dei Sylvan, quello in “Empathy” dei Pendragon, un po’ più forzatamente possiamo riconoscerne uno anche in “Honor Thy Father” dei Dream Theater, così come quello particolarissimo eseguito in growl in “Serenity Painted Death” degli Opeth.
Anche l’aspetto tecnico e virtuosistico pare accentuato rispetto alle produzioni della band principale, un dinamismo costante che rende i brani movimentati e mai noiosi. Alla fine sembra che lo scopo principale di questo lavoro solista sia proprio quello di approfondire, in tutti i sensi, prendere determinati aspetti della propria band e portarli all’estremo, con risultati assolutamente di livello. È tutta qui la chiave di “The Cocoon”, un disco forse non essenziale ma che offre 7 brani davvero ricchi di ispirazione che lo rendono una delle migliori uscite dell’anno 2019, inutile dire che si spera in un seguito, magari che approfondisca altri aspetti.
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