Il 16 novembre, biglietti alla mano, ho realizzato un desiderio custodito a lungo nel cassetto, vedere il "Tristan und Isolde" dal vivo; stavo nei palchi centrali del Teatro dell'Opera - come dire proprio in braccio al wort-ton-drama.
Dal silenzio parte il Preludio, e si sollevano già tutte le tensioni enarmoniche che saranno risolte solo alla fine del III atto; ci vuole un attimo per entrare nella parte di spettatore wagneriano, l'orecchio non è abituato a tanta sospensione sonora - a tanta "irresolutezza". Gli accordi iniziano ad abbarbicarsi come edera su di noi e non se ne respinge il fascino. Già dall'inizio timbri e dinamiche mostrano quanto Wagner fosse, per la tradizione musicale, un alieno. Sovrano dell'ambiguità armonica, prende l'orchestra, la tratta per i suoi propri fini e la mette al servizio della parola; ma anche uno che può prendersi il lusso di "disprezzare" la tradizione del melodramma, che sembra guardarla negli occhi e dirle "non mi servi, anzi non mi piaci. Ho abbastanza grandezza per creare - a modo mio". La gestazione dell'opera fu rapida (se paragonata alla Tetralogia!), Wagner interruppe il Sigfrido per dedicarvisi dal 1857 al 1859... fu il tragitto verso la rappresentazione ad essere lungo: la prima assoluta ci fu solo sei anni dopo perché quasi tutti allora la giudicarono ineseguibile, ma ancora oggi è un duro banco di prova per cantanti, scenografi e soprattutto direttori. Non deve essere facile avere per le mani materia tanto incandescente, la fusione più completa fra versi, musica e spazio scenico: un divenire costante di temi che si avviluppano e si contaminano, che vogliono superare il melodramma stantio e asfittico delle forme "chiuse". La massima aspirazione wagneriana che prende corpo.
Il mare (dove si è svolto tutto il primo atto) e la notte (protagonista del secondo) sono i due simboli chiave marcati con continuità ossessiva: sono emblemi di decadenza, poiché quello dei due amanti è un annientamento reciproco, un "annegamento" e oblio dai contorni morbosi, con tanto di lunghissime invettive contro la falsità del giorno e della luce. Il filtro magico è solo un espediente scenico perché possano deflagrare sentimenti profondamente repressi ma già presenti, celati perché Isolde è destinata al re ed amico di Tristano (nei confronti del quale l'eroe commette quindi un "parricidio" in senso lato). Tristano e Isotta aspirano alla morte quale coronamento supremo del loro legame, come nella favola medievale in cui dopo morti si trasformavano in alberi abbracciati: decadentismo par excellence. Durante lo sviluppo della vicenda dal Preludio al principio del terzo atto, il leitmotiv principale (quello celebre dell'amore) è comparso, scomparso, riapparso, si è trasformato, insinuato, senza però mai concludersi in un modo o in un altro; Wagner lo dosa: lo lascia comparire sulla scena solamente insieme a Isolde o accanto ad alcune parole chiave per poi soffocarlo sistematicamente in nuove armonie. Questa condotta compositiva fa risplendere l'incipit del terzo atto: dall'introduzione strumentale si è inserito un tema scuro e funereo anche nel canto di Kurwenal, lo scudiero che veglia su un Tristano morente. Quando però lo scudiero dice ad un pastore di passaggio ". . se si svegliasse/ sarebbe soltanto/per lasciarci per sempre/ a meno che prima non apparisse/ la sanatrice/la sola che ci può soccorrere [. . . ]", nel momento in cui inizia l'allusione ad Isotta questo tema funebre assume l'andamento cromatico ascendente del leitmotiv principale e si trasforma in esso, anzi in un ibrido fra i due, per poi riacquistare in fine di frase la propria identità. L'intero tessuto dell'opera è composto di simili intrecci, sorretti dalla cura maniacale e dalla personalità delle dinamiche orchestrali: spesso, ad esempio, l'orchestra esegue nello stesso tempo un crescendo improvviso insieme ad un diminuendo per differenziare i richiami o creare un effetto. Chissà cosa sarebbero stati l'ultimo Verdi, Bruckner, Mahler e Schonberg ecc. senza Wagner. Il suo fantasma passa sotto le porte ed entra - prepotente o di soppiatto - nella penna di quasi tutti i compositori del primo Novecento; si contano sulle dita di una mano quelli impermeabili (come Brahms) al suo stile.
Nel terzo atto Tristan attende che Isotta giunga a curarlo per mare e sfoga il proprio delirio in mezz'ora di musica e parole, tanto che l'insofferenza si fa virale trasmettendosi anche a spettatori o ascoltatori: i tempi scenici infatti sono dilatati al massimo, in un clima di assurdo teatrale che incredibilmente funziona, perché a parlare non è l'azione ma l'inconscio sospeso in un limbo, l'animo e la sua metamorfosi. Quando Isolde finalmente arriva l'eroe gli muore davanti. E' la fine segnata da un destino ineluttabile. Ma resta ancora l'episodio finale per dare un senso ad un mare di cromatismi, ritardi, false cadenze, che se ha toccato più volte la tonalità lo ha fatto quasi per caso; la versione pentagrammata dell'Eterno Ritorno, la "Morte di Isotta"(Liebestod): abbandonatasi sul corpo di Tristano in un delirio dal respiro cosmico Isolde sprofonda con voluttà nell'indistinto, nel gran Tutto del romanticismo. Il "Liebestod" (che aldilà di ogni possibile gerarchia è una vetta - se non la vetta - della musica occidentale) non porta in sé solo l'impronta del genio, ma incarna storicamente un inizio e una fine: l'armonia non è più quella "inaugurata" da Bach e consolidata da Mozart e Beethoven; è il primo passo verso la musica moderna - l'urlo di vita di un neonato che respira per la prima volta. Sul canto strozzato e denso di sussulti della soprano l'orchestra cresce gradualmente di volume, il flusso delle cadenze incomplete si fa più vertiginoso, sempre di più, siamo smarriti, non c'è un punto di riferimento finchè, dopo l'ennesima vorticosa, sinuosa, dorata arrampicata del leitmotiv su se stesso ci avvolge in uno schianto il climax, la cadenza finale e decisiva, l'esplosione della volontà di potenza, Isolde grida "nel respiro del mondo. . /Nell'alitante Tutto. . / naufragare..."; e in questo schianto anche le fibre dello spettatore sembrano disgregarsi e perdersi, catturate fra il vibrato fortissimo degli archi nell'eternità di pochi secondi: tutte le tensioni armoniche esplodono e si risolvono qui, in questo approdo finale dopo il quale il canto si scioglie sussurrando in un tappeto soffice di archi, fiati ed arpa che aspira a spegnersi. Isolde si accascia a terra.
E a quel punto sono tornato anch'io sulla terraferma, inevitabilmente sconvolto e in tempo per gli applausi.
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