Evidentemente questo non è un disco dei Pink Floyd, ma questa recensione parla decisamente di loro.
Avvertenza per i lettori: se siete interessati alla sola recensione dell’album leggete solo la prima e l’ultima parte di quanto scritto.
Talvolta osservando a lungo un quadro si ha l’impressione che un piccolo particolare di esso richiami immagini e considerazioni importanti pari a quelle di altri dettagli più vistosi. E’ il caso di questo piccolo e delicato album che si inserisce all’interno della “Pink Floyd Music”. Con l’album “Animals”, del 1977, l’apporto creativo di Wright al gruppo si annullò in fase compositiva e si ridusse in fase di arrangiamento dei brani. La leadership di Roger Waters divenne schiacciante, portando il gruppo a creare paesaggi sonori più crudi e duri: le tastiere di Wright emergevano solo a tratti per portare con sé atmosfere cupe e febbrili, lontane dalle musiche eteree e delicate proposte dal tastierista. L’anno successivo, alla fine del “In The Flash Tour”, Wright si ritira in Francia per concentrarsi sulla creazione di “Wet Dream”. In genere, quando un membro di un gruppo non riesce ad esprimersi creativamente con i propri compagni (nell’album “Animals” per la prima volta Wright non partecipa alla fase compositiva) e lo fa invece al di fuori del gruppo stesso, è segno che qualcosa si è incrinato. Questo qualcosa è individuabile su più livelli che interagiscono strettamente fra di loro. Possiamo individuare, in sintesi, attraverso un approccio interazionista:
un livello individuale;
un livello di gruppo;
un livello sociale, culturale ed economico, a cui si adatta e su cui tenta di intervenire il music business.
A livello individuale, Wright era forse la persona più debole e introversa del gruppo, debolezza aumentata in quel periodo da alcuni problemi con le droghe (cocaina, in particolare) e dalla incomunicabilità e scarsa amicizia maturata con gli altri e in particolare con Waters. Inoltre il matrimonio con l’allora moglie di Wright, Juliette, è in crisi. Come molti di noi abbiamo sottolineato in questo sito, l’apporto creativo di Wright è stato molto sottovalutato in quanto, nonostante vanti pochi crediti compositivi, i suoi “archi sonori” hanno dato profondità e solennità alle composizioni prima di Barrett e poi di Waters e del gruppo in genere.
A livello di gruppo, la forte e controversa personalità di Waters divenne assolutamente dominante, modificando il processo creativo della band. Mentre in precedenza il tempo speso dai componenti della band per sperimentare e comporre insieme era grande (vedi “Echoes”), in quel periodo invece si ridusse al solo aspetto degli arrangiamenti dei brani. Waters era spinto da una “febbre” creativa enorme che lo condusse a scrivere direttamente a casa le musiche per le sue “idee concettuali”, cercando di delegare il meno possibile agli altri l’aspetto compositivo delle stesse (a tal proposito, Waters si lamentò di “Shine On You Crazy Diamond” perché “diluiva” troppo i temi trattati da “Wish You Were Here”). Inoltre l’accentramento compositivo sulla sua persona tendeva a soddisfare maggiormente il suo ego ipertrofico (in tempi recenti, sui biglietti dei suoi concerti campeggerà la scritta “the creative genius of Pink Floyd”), piuttosto che la condivisione del lavoro con altri. A tal proposito è interessante notare come un gruppo possa essere in alcuni casi un catalizzatore di energie vitali e in altri casi essere percepito come un vincolo e un limite all’esistenza delle persone che lo formano. Questo vale per qualsiasi tipo di gruppo, non solo musicale.
Nel caso dei Pink Floyd, il periodo che và dal 1968 al 1975 è caratterizzato da una predominanza collaborativa fra i membri della band a cui si aggiungono dei contributi individuali (prevalentemente di Waters). Si è in presenza di un equilibrio precario, basato in buona parte sui limiti dei singoli elementi che vengono superati grazie alla collaborazione del gruppo: Waters si impone subito come paroliere, ma la sua capacità compositiva a livello musicale è in parte legata ai contributi musicali e interpretativi di Gilmour e Wright. Con gli anni gli equilibri della band vanno progressivamente mutando: Waters pretende che le musiche del gruppo si adattino completamente alle idee letterarie da lui partorite e da qui comincia ad assumersi quasi completamente l’onere di scrivere le basi musicali delle canzoni del gruppo; Waters decide di dare maggiore spazio alle sue interpretazioni vocali, ricorrendo a Gilmour solo dove non ne poteva fare a meno (Gilmour possiede una voce più versatile e con un’estensione maggiore rispetto a quella di Waters, mentre la voce di Wright scomparirà completamente dal sound della band fino a “The Division Bell”); Gilmour e Wright non riescono a proporre testi all’altezza di quelli di Waters e la mancata collaborazione con lui li demotiva anche come autori di musiche; Gilmour e Wright hanno una voglia comunicativa inferiore a quella di Waters e forse anche per questo non si pongono realmente in conflitto-competizione con lui; Waters tende sempre meno a riconoscere i meriti degli altri (ad esempio, Gilmour si lamenterà che “Sheep” è al 70% sua, ci sarebbe però da chiedersi cosa lo ha distolto dal lottare per avere riconosciuti i suoi diritti).
A livello socio-culturale, ricostruire cosa portò nel 1976-1977 all’esplosione del punk in Inghilterra è davvero complesso, ma è interessante notare che la band veniva additata, assieme ad altre band storiche, come “il vecchio da superare”. Wright guardava con preoccupazione a questo ma non aveva armi da opporre, mentre Waters era ben deciso a scendere “in strada” e a “lottare” con il suo basso contro i nuovi arrivati: questo voleva dire rinnovare i contenuti degli album e, soprattutto, il sound della band, a discapito del contributo di Wright.
Naturalmente i cambiamenti sorti nella band non erano frutto di un mutamento improvviso ma erano il risultato delle dinamiche, interne ed esterne alla band, che si erano sviluppate negli anni. Questa disanima della band ha lo scopo di sottolineare come in realtà non vi sia un unico “Pink Floyd Sound” ma bensì molti, che si sono succeduti e accavallati negli anni. Questa disanima inoltre si ricollega a “Wet Dream” proprio perché è un album che dimostra come Wright, colonna portante del sound della band, si sentisse ormai “fuori posto”. Fuori posto in una band che suonava ormai in maniera diversa da come desiderava; fuori posto in una band dove i rapporti umani si stavano fortemente logorando; fuori posto in quel periodo storico che proponeva musica aggressiva e dissonante; fuori posto con sé stesso, tanto da cercare rifugio nel mondo ingannevole delle droghe.
Con addosso questo carico di “negatività” Wright scrisse questo album, anch’esso “fuori posto”, per dimostrare a sé stesso che il suo viaggio musicale era ancora vivo e valido. Ascoltare questo album fa sorgere degli interrogativi (di natura assolutamente speculativa) su come avrebbe potuto essere “The Wall” (o qualsiasi altro album creato dalla band) se ci fosse stata una maggiore collaborazione e coesione fra i membri della band. Forse “The Wall” sarebbe stato migliore senza riempitivi come “The Show Must Go On” o “Bring The Boys Back Home” (io, amante della band, mi assumo tutte le responsabilità per questa affermazione); forse sarebbe stato “diluito” nella sua forza dagli interventi compositivi di Wright; oppure non sarebbe nemmeno esistito, considerando gli elementi di “incomunicabilità” e “isolamento” presenti nell’album stesso. Mi pongo questi interrogativi proprio perché ritengo più “eccitanti” i Pink Floyd che collaboravano fra di loro per creare quel magma musicale assolutamente unico, pur essendo perversamente interessato a tutto ciò che hanno pubblicato e creato in altri contesti. Considero Roger Waters uno dei massimi autori nella storia del rock ma ritengo assolutamente sbagliato sottovalutare l’apporto musicale fornito da musicisti di grande sensibilità e talento come Wright e Gilmour.
Tornando all’album, posso dire che è un piccolo gioiello fuori che porta avanti il “discorso musicale” di Wright, interrotto con “Shine On You Crazy Diamond Part IX”, contaminandolo con tracce di jazz, funk e blues. L’album è formato da quattro canzoni e sei strumentali attraversate quasi sempre dalle “vibrazioni marine”.
L’album si apre con la buona strumentale “Mediterranean C”, in cui gradualmente e lentamente si inseriscono prima le quiete note delle tastiere di Wright, poi la lieve sessione ritmica composta da Larry Steele al basso e Reg Isadore alla batteria, e a seguire lo splendido sassofono di Mel Collins e l’ispirata chitarra di Snowy White (chitarrista e bassista aggiunto del tour di “Animals”). Il livello sale con le due splendide strumentali seguenti, “Cat Cruise” e “Waves”, in cui Wright crea le basi per il volteggiare limpido e luminoso dei fraseggi di Collins. “Mad Yannis Dance” ha un impianto simile ai precedenti brani, ma possiede una forza minore. Le novità arrivano invece dalle ultime due strumentali, “Drop In From The Top” e, soprattutto, “Funky Deux”: la prima vede alternarsi al ruolo di strumento solista l’organo di Wright e la chitarra di White all’interno di atmosfere meno eteree dei brani precedentemente citati. La seconda, come dice apertamente il titolo, è un funk dall’andamento mid-time che non mi sarei aspettato da Wright, e a cui partecipano con gusto giocoso Wright, Collins e White: decisamente un finale atipico che lascia un po’ disorientati.
A mio parere questi ultimi tre brani sono i più deboli dell’album. Per quanto riguarda le bellissime canzoni rimanenti c’è un piccolo mistero: la versione in vinile dell’album accredita Juliette Wright come autrice del testo di “Pink’s song”, mentre la versione cd afferma che Juliette è autrice invece del testo di “Against The Odds”. Dalle informazioni che ho io, questo particolare non è mai stato chiarito.
“Against The Odds” è una canzone intensa e sentita, ornata dai contrappunti chitarristici misurati ma belli di White, in cui la voce di Wright parla del dolore derivato dal conflitto e dalla non comprensione con l’altro. “Summer Elegy” ed “Holiday” sono canzoni agrodolci basate sulla dominanza sonora del pianoforte, dominanza che viene interrotta solo dai vibranti assoli di White e da piccoli contrappunti di chitarra slide. Infine arriva la canzone più commovente dell’album, “Pink’s Song”. Mi sono sempre chiesto perché una canzone così bella e significativa sia così poco ricordata dagli appassionati dei Pink Floyd. La canzone, oltre a possedere una splendida struttura musicale basata sul dialogo fra le tastiere e il flauto di Collins, mostra una delle interpretazioni vocali più sentite da Wright, il quale intona:
…Incastrati in una rete intricata
ci hai aiutato a liberarci
tristemente, poi, hai perso te stesso
e così sei dovuto andare via…
Wright è sempre stato evasivo sul significato di questa canzone, ma è difficile non pensare all’amato “diamante pazzo”. Questa canzone non avrebbe sfigurato in nessun album dei Pink Floyd. La conclusione che posso trarre è abbastanza amara: forse il non aver sostenuto le capacità creative di questo fragile musicista all’interno del gruppo è stato uno dei più grossi sprechi dell’effimera storia del rock. La storia dei Pink Floyd poteva essere ancora più luminosa…
Carico i commenti... con calma