Londra. Victoria Station. Più o meno 2 anni fa. Io a mo’ di novello flaneur che mi aggiro in uno di quei mega-negozi, che chiamare edicole è davvero troppo riduttivo, dove oltre a giornali e riviste di ogni tipo, puoi trovare dalle barrette di cioccolato, alle patatine ai superalcolici…agli assorbenti, anche quelli di ogni tipo e misura. La mia attenzione, inutile dirlo, ricade sul reparto riviste musicali e più in particolare sulla rivista “Wire”.
In copertina Richard Youngs. Chi è costui?
Sfoglio, guardo, leggo…visto che mi aspetta un lungo volo alla volta di casa, decido che è il caso di comprare la rivista. Scopro che Richard Youngs è un chitarrista scozzese, ma suona anche molti altri strumenti, che è un icona dell’avant-folk cui piace giocare con l’elettronica, che fa dischi dagli inizi dei ’90 sempre in costante ricerca e movimento e in bilico tra un certo sperimentalismo minimalista d’avanguardia e un approccio di chiare ispirazione folk-progressive, ma che si diletta anche con collaborazione ardite come quella con il chitarrista degli “Acid Mothers Temple”, Makoto Kawabata o con il padrino dell’avant-folk, il folle Jandek.
Musica per le mie orecchie.

Tornato a casa e reperisco questo “May”, uscito nel 2002 per la  Jagjaguwar e  da cui rimango letteralmente folgorato. Sicuramente rispetto ai primi lavori di Youngs (che subito ho provveduto a trovare..), più sperimentali e  a volte estremi e realmente troppo debitori ai pionieri del minimalismo, questo è uno dei più accessibili e ascoltabili. Il disco è attraversato dagli spiriti di maestri del folk d’oltremanica come John Martyn, Bert Jansch e Nick Drake, ma anche fortemente debitore allo sperimentalismo di un Robert Wyatt o Current 94 e alla tecnica chitarristica di John Fahey.
Le melodie sono semplici, essenziali, scarne, fluide e ipnotiche, di rara dolcezza e impagabile sensibilità, così come le liriche e la voce di Richard che in questo disco, ancor più che in altri, sembra come riscatta e liberata.
Si parte da “Neon Winter”, 7 minuti e 30 ed è come se il compianto Derek Bailey incontrasse il Wyatt più allucinato e delirante. “Trees That Fall” e “Wynd Time Wynd” sono piccoli gioiellini folk, nonché l’esempio delle grandi capacità compositive del buon Richard. Il picco si tocca però con “Gildings”, degna del Martyn più ispirato, ballata di rara bellezza e intensità. L’album nel suo complesso è un chiaro esempio di come la semplicità sia la vera grandezza e come a volte non ci sia bisogno di grandi arrangiamenti, imponenti lavori di post produzione o grandi ricami intorno ad un disco... basta che ci sia qualcuno che sappia toccare e far vibrare le corde giuste.
Buon ascolto.

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