New York City, Autunno 1968. Bumpy Johnson, il boss di Harlem, il “sesto padrino”, muore. Anche il boss della famiglia Lucchese, Dominic Cattano, va a rendergli omaggio.

Senza la figura carismatica di Bumpy, Harlem diventa un inferno anarchico. A mettere ordine ci pensa un uomo silenzioso, modesto e abitudinario: Frank Lucas (Denzel Washington) – l’autista del padrino defunto.

Con la sua “folle intelligenza” organizzativa (eliminando cioè tutti i mediatori), Lucas riuscirà a costruire un “gigantesco impero casalingo“ della droga (per alcuni superiore a quello costruito dalla stessa Cosa Nostra), fino a quando un poliziotto, Richie Roberts (Russel Crowe), con la sua “squadra speciale”, riuscirà a metterlo in trappola – e tutto grazie ad un “appariscente cappotto”. Finale col botto.

Per chi ha qualche conoscenza della storia della Mafia di New York, questo è un gioiello (tristemente sottovalutato) - ottimo complemento alla storia (dei primi anni 70) delle 5 Famiglie, a cui si univa la Famiglia di Harlem, che agiva, ovviamente, col permesso di Cosa Nostra.

Il film ritrae impietosamente la comunità afro-americana di New York: da una parte gente senza scrupoli che per i soldi compì, ad Harlem, un imperdonabile genocidio (sul quale, a quanto ne so, non era mai stato fatto un film), e dall’altra tossici, ma anche povere vittime che consumavano eroina per dimenticare i loro problemi e, talvolta, anche per non sentire i morsi della fame. Agghiaccianti le scene dei buchi in vena.

Ridley Scott si è preso un grosso rischio “offendendo” alcuni “miti del popolo afro-americano” come Joe Louis (indimenticato campione dei pesi massimi) e Wilt Chamberlain (uno dei più grandi cestiti di sempre), celebri amici di Frank Lucas, che ebbero anche il coraggio di presentarsi al suo processo. Ma questo film è tutto, tranne che un film razzista.

Ma Scott non parla solo di mafia e droga. Parla anche della differenza tra “spirito di squadra” e “basso profilo” di Lucas, e avidità e stupida voglia di mettersi in mostra di Niki Barnes (Cuba Gooding Jr.), altro celebre gangster nero.

Ma c’è anche spazio per parlare di ambiguità di comportamenti. Anche se Richie Roberts è il poliziotto onesto che non prende tangenti e che non rivende la droga sequestrata, la moglie (Carla Gugino), al momento di divorziare, gli dice che le cose non sono così semplici: “Tu pensi di essere meglio dei tuoi colleghi corrotti. Tu, invece, andrai all’inferno come loro. Tu non prendi soldi, così puoi essere scorretto in tutto il resto”.

Ricostruzione storica davvero ottima. Geniale il modo in cui il regista riesce a mostrare l’evolversi dei 4 anni di regno di Lucas (1969 – 1973), usando alcuni eventi della sceneggiatura che ci mostrano in che anno siamo: Agosto 1970, quando Richie diventa avvocato; l’incontro di boxe fra Mohammed Ali e Joe Frazier (8 Marzo 1971), vero spartiacque del film; l’inizio del ritiro delle truppe dal Vietnam (Gennaio 1973), con Nixon che lo annuncia alla televisione.

Ci sarà anche un piccolo accenno alla “mafia corsa” (i cosiddetti “marsigliesi”), e alla “French Connection” - che rende il quadro storico del crimine newyorkese dell’epoca ancora più completo.

Bravissimo Denzel Washington (candidato stranamente solo al Golden Globe e non all’Oscar), e assolutamente eccezionale il corrotto Josh Brolin, che lo stesso anno girò anche “Non è un paese per vecchi”. Bravi anche Russell Crowe, e la sottovalutata Carla Gugino. Da antologia, per me, la scena del tavolo tra Lucas e Roberts, poco prima della fine, con un amaro scambio: Lucas: “Con o senza di me, i tossici continueranno a farsi, ruberanno per farsi, e poi moriranno. Mettermi dentro o lasciarmi fuori non cambierà nulla”; Roberts: “E’ così che stanno le cose”.

Una nota finale. Dominic Cattano (interpretato dal bravissimo e sottovalutatissimo Armand Assante) è un nome inventato: il suo vero nome è Carmine Tramunti (1910-1978), boss della famiglia Lucchese alla fine degli anni 60, uno dei più grossi trafficanti (e spacciatori) della storia di Cosa Nostra - proprio il “Gribbs” citato da Paul Cicero in “Godfellas”.

Voglio concludere con una frase, che viene pronunciata da Bumpy Johnson prima di morire - proprio all’inizio del film – e che descrive benissimo la malattia che da sempre affligge gli Americani: il gigantismo: “L’ America è diventata così grande che non riesci più a trovare la strada di casa”.

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