Con "Blade Runner" di Ridley Scott ci troviamo di fronte a un film estremamente complesso e affascinante: a mio avviso l'apice espressivo del regista (non più raggiunto in seguito) che riesce a creare un puzzle dagli infiniti rimandi, una visione filmica di rara potenza, in una sola parola un capolavoro ricco di una serie quasi infinita di implicazioni e di livelli di lettura. Arrivo a dire che mi risulta persino arduo riuscire a identificare un punto di partenza per descrivere alcuni degli elementi di "Blade Runner" che personalmente mi hanno maggiormente affascinato.

Tento di uscire subito dall'empasse della "pagina bianca" scegliendo la via più semplice e tradizionale, ovvero partendo dall'incipit che consiste già di per sé in una vera e propria dichiarazione di intenti: un'inizio crepuscolare che preannuncia quella che sarà l'intera atmosfera del film in cui Scott opta per un montaggio a singhiozzo, che frammenta continuamente il ritmo, conferendo scarsissima fluidità alla visione e dando subito a intendere che ci troviamo di fronte a un film che non ha intenzione di procedere scorrendo via liscio in linea retta.

Volendo inquadrare il film all'interno di un genere dovremmo sicuramente identificarlo come film cyberpunk, o meglio il primo vero film di genere cyberpunk: un genere fantascientifico che appariva completamente nuovo nel momento in cui "Blade Runner" usciva nelle sale in prima visione (nel 1982) e che crea un vero e proprio iato rispetto alla fantascienza che eravamo abituati a vedere al cinema fino ad allora.

A ben vedere, già prima di "Blade Runner", alcune delle tematiche principali della letteratura cyberpunk erano comparse in film come:

- Metropolis, di F. Lang, dove il robot Maria è il predecessore dei ben più avanzati replicanti di Blade Runner;

- 2001 Odissea nello Spazio, di S. Kubrick, dove la macchina (il computer HAL 9000) si sostituisce all'uomo in quella che dovrebbe essere la sua precipua caratteristica ovvero la capacità di pensare;

- Arancia Meccanica, ancora di S. Kubrick, dove, sebbene non vi fosse una rappresentazione delle tecnologie avanzate presenti in Blade Runner, tuttavia vi era già la tipica ambientazione in una città (Londra) popolata da bande di "drughi" e piagata dalla droga.

A mio modo di vedere questi film avevano però soltanto anticipato e/o prefigurato alcuni degli elementi che Blade Runner ha sviluppato più compiutamente. In particolare, Ridley Scott muovendo dal racconto "Gli androidi sognano pecore elettriche?" di Philip K. Dick, ha creato un film che si spinge ben oltre il racconto stesso e, concentrandosi sulle problematiche della vita degli organismi cibernetici, a ben vedere, si spinge in un viaggio di indagine profonda su aspetti metafisici e filosofici della vita umana.

Di fatto però manca ancora in "Blade Runner" un concetto fondamentale del cyberpunk e questo perché doveva ancora essere messo bene a fuoco negli anni seguenti al film di Scott, in particolare grazie a scrittori come William Gibson e Bruce Sterling nelle loro opere scritte fra il 1984 e i primi anni novanta: ovvero il concetto del cyberspazio. Quella realtà virtuale o virtualità reale che sarà meglio rappresentata nel 1995 dal film Johnny Mnemonic (di R. Longo) e soprattutto nel 1999 dal film Matrix (dei fratelli Wachowsky).

Sicuramente però molti film di genere cyberpunk successivi a Blade Runner ne richiamano, più o meno consapevolmente, il "look", le atmosfere e le ambientazioni visive che sono a mio avviso spettacolari, suggestive, da brivido.

"Blade Runner" tuttavia non è solo cyberpunk: è molto altro. Anzitutto l'insistenza iniziale sull'immagine dell'occhio che rappresenta non solo l'immagine da guardare, ma al contempo l'immagine su cui guardare per scorgere il riflesso di Los Angeles, come pure è rappresentazione di un occhio che guarda verso lo spettatore: non si può fare a meno di notare qui il riferimento al metadiscorso sul cinema e il rimando a "Film" di Alan Schneider.

Un altro riferimento evidentissimo è a quello del mito del "Prometeo moderno" presente nel "Frankenstein" di M. Shelley: la similitudine esitente fra il replicante (il Nexus 6) e la "creatura" del romanzo "Frankenstein" si sostanzia in particolare nel fatto che le due "creature" condividono il medesimo destino: ovvero il rifiuto della paternità da cui si origina il malessere che le affligge. Tuttavia mentre la creatura vuole uccidere Frankenstein perché egli ha dato vita ad un abominio, il replicante Roy finirà per uccidere il suo creatore Tyrell per la ragione opposta: ovvero poiché il suo creatore non è in grado di dargli una vita più lunga. Mentre, analogamente a quanto accade in Frankenstein, l'orignie della furia della creatura non è da ricercarsi in un errore o in una anomalia nella sua "fabbricazione", ma dal contesto in cui la creatura si trova a vivere: un mondo che la teme, la fugge e la caccia.

In "Blade Runner" la vera rivoluzione consiste nell'aver introdotto e approfondito tematiche di una fantascienza che non cerca tanto di catturare lo stupore degli spettatori sfruttando i soliti cliché legati all'oggettistica iper-tecnologica, oppure all'indagine di misteri provenienti dalle esplorazini dello spazio profondo, ma piuttosto nell'aver dato una visione dello stile di vita e della società in un futuro che ci appare così concretamente tangibile, grazie a un vero e proprio fiume di immagini così realistiche e verosimili e tali da apparirci, in realtà, più "futuribili" che futuristiche e non molto lontane da noi.

Scott ci fa vedere un mondo squallido, popolato da reietti e da poveri cristi: una visione cupa e assolutamente negativa: il film è immerso in un'aria tetra e claustrofobica: non ci sono mai aperture e non si dà mai spazio alla luce, se non a quella fredda e impersonale dei molti neon colorati che compaiono in pressochè ogni sequenza. Tutti i personaggi sono delle vittime: ognuno di loro è un ingranaggio di un meccanismo molto più complesso e grande di lui. Il solo personaggio che si possa veramente dire al di sopra del sistema e, in questo senso "vincente", è il replicante leader dei ribelli (Roy) perché è l'unico che tenta di ribellarsi a un sistema in cui tutti non sono niente di più che "pezzi di ricambio" il cui unico scopo è quello di alimentare la "grande macchina" (Matrix è dietro l'angolo, ma occorrerà ancora qualche anno prima di riuscire a visualizzare gli scenari proposti dai fratelli Wachowsky).

Sono personaggi a cui Scott ha saputo imprimere profondità psicologica e spessore morale: Deckard, il poliziotto-cacciatore di taglie, non è certo l'eroe solitario incorruttibile e senza macchia, ingolfato di ideali in pieno stile "Giudice Dredd" (tanto per citare un esempio di fumetto in stile super-eroe cyberpunk, da cui fu peraltro anche tratto il film omonimo), ma piuttosto un personaggio borderline che non sa mai dove stia il bene e dove il male. Un personaggio che si muove nella consapevolezza che il Bene non sempre va a braccetto con la Legge: esemplare a questo propostio il confronto finale fra Dekard e Roy che getta lo spettatore nella più assoluta perdita di riferimenti fra cos'è bene e cos'è male: smontando in un colpo solo certo cinema (non solo di fantascienza) così piattamente retorico e pateticamente ipocrita.

Le uniche parole cariche di passionalità provengono dalla bocca di Roy e non è un caso infatti che l'unico momento in cui Scott ci regala un'apertura è proprio il volo della colomba che fugge dalla mano di Roy, appena spirato, in cui vediamo un veloce sprazzo di cielo blu. Questo è il momento più lirico di tutto il film e chiude la celebre scena del confronto fra Deckard e Roy: un momento di lirismo che si perde nel fiume di sequenze scure e claustrofobiche del film, allo stesso modo in cui i ricordi di Roy si perdono come lacrime nella pioggia.

Se si ha presente la visione di Scott non si può non restare assolutamente stupefatti dal modo in cui la versione "director's cut" (cioé quella originariamente pensata dal regista, ovvero il film così come lo si doveva proiettare fin dall'inizio) è stata snaturata dal finale in stile "happy ending" voluto dalla produzione, in cui vi è uno stacco di tono nettissimo rispetto a tutto il resto del film. Il finale della director's cut infatti non chiude con la scena in cui Deckard e Rachel scappano verso un luogo idilliaco dove c'è per loro il lieto fine "....e vissero felici e contenti": ma chiude con Deckard e Rachel che entrano in un ascensore, mentre un attimo prima Deckard trova sul pianerottolo del suo appartamento una traccia inequivocabile del passaggio di Gaff: un origami raffigurante un piccolo unicorno. Nel momento in cui Deckard lo raccoglie, forse nella sua mente si insinua il dubbio che anche lui stesso è un replicante perché se Gaff è a conoscenza del suo sogno dell'unicorno (la scena di Deckard che sogna l'unicorno peraltro è presente solo nella director's cut) significa che si tratta di un ricordo fasullo che gli è stato impiantato e che Gaff, in qualità di poliziotto, ha potuto visionare.

E' affascinante poi la scelta di Scott di assegnare il ruolo di rivoluzionario a un replicante e non a un uomo (o almeno al personaggio che dovrebbe maggiormente avvicinarsi al concetto di uomo, ovvero Deckard): è invece una macchina a doversi fare carico di istanze rivoluzionarie che dovrebbero stare a cuore semmai a un essere umano: e qui ci si potrebbe a lungo interrogare sulla percezione dell'uomo stesso come macchina. Dove sta alla fine la differenza fra l'uomo e un organismo cibernetico in grado di provare sentimenti ? Non è forse anche l'uomo una macchina d'ossa ? (ogni riferimento all'album "Bone Machine" di Tom Waits è puramente casuale). Ecco un'altro doppio salto mortale di Blade Runner il cui messaggio finale sembra essere proprio che l'entità "uomo", intesa nel senso che di essa ne danno le interpretazioni religiose, non esiste più, in quanto l'uomo è talmente assuefatto e integrato al sistema da non sentire più nemmeno l'esigenza di sentirsi individuo nella percezione di sé, al di sopra e al di fuori del sistema che, oltre a renderlo schiavo, lo annulla privandolo del suo status di individuo libero e dotato di autonomia di pensiero: perché di fatto nella visione di Scott queste sono tutte prerogative ad appannaggio dei replicanti e non più degli uomini. La conclusione a questo punto appare scontata: in un mondo disumanizzato e impersonale, ossessionato da continui, insulsi messaggi promozionali (lascio a voi decidere in che misura tale visione sia profetica del mondo di oggi) e irrimediabilmente rovinato da un qualche conflitto o cataclisma che ne ha compromesso la Natura, l'uomo ha dovuto ricreare sè stesso per trovare un essere in grado di ribellarsi a tutto ciò.

I nuovi esseri sembrano oramai gli unici in grado di provare sentimenti e di avere autocoscienza ("Penso, dunque sono", dice ad un certo punto la replicante Pris, citando Renè Descartes) e per questo sono anche gli unici a sentire ancora la voglia della vita e il senso di ribellione alla loro condizione di schiavitù ("angelo ribelle" si autodefinisce il leader dei replicanti alla sua prima apparizione nel film) e sul finale del film Roy ribalta la percezione di sé passando dalla connotazione di Lucifero a quella del "figlio dell'uomo": del Cristo che si crocifigge (l'atto simbolico di piantarsi il chiodo nella mano parla da solo) e poi salva la vita a Deckard a testimoniare il suo infinito amore per la vita che è costretto ad abbandonare perché il suo creatore ha voluto così. Come non vedere qui tutta la sua umanità sublimata nell'atto finale di "salvazione", risparmiando la vita a Deckard ?

Scott crea un film magico: un film dai molti significati e dai tempi dilatati: una pellicola dal ritmo serrato, che tiene in apnea lo spettatore e lo conduce a scoprire una visione potente e innovativa, piena di fascino e altamente suggestiva.

Capolavoro imperdibile.

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