"I duellanti" nella mia vita l'avrò visto almeno una dozzina di volte e ad ogni visione ho avuto un brivido nuovo, ora per il freddo della campagna inglese all'alba, ora per la paura di essere infilzato giusto nel petto, ora per la potente bellezza di un'inquadratura pari ad un quadro di Rembrandt.
Ridley Scott nel 1977 è prevalentemente un regista di short pubblicitari e stranamente realizza un film che è quanto di più lontano possibile dal suo mondo dorato fatto di tette e lustrini. Costretto dallo scarso budget, utilizza quello che la natura gli mette a disposizione: i colori del paesaggio, le asperità delle rovine, il vapore della rugiada al mattino, le scintille delle spade che si incrociano. Tutto ciò per rendere omaggio ad un breve racconto di Joseph Conrad incentrato su un assurdo duello che dura ben quindici anni tra due ufficiali dell'esercito napoleonico.
Due uomini diversi l'uno dall'altro, Armand D'Hubert (un magnifico Keith Carradine) impeccabile nella sua eleganza, freddo ragionatore, abile nella diplomazia, un "soldato da boudoir", un "lacchè" come lo definisce Gabriel Feraud (uno straordinario Harvey Keitel), che invece all'opposto è un istintivo, un bordelliere e un pazzo che deve sfogare la sua rabbia verso un uomo che considera debole. Entrambi sono invece bravi ufficiali ussari, ma Feraud trova il pretesto per un duello a Strasburgo nel 1800, nel riquadro temporale annunciato dalla didascalia. Il primo duello alla spada, assurdo nelle sue motivazioni inspiegabili a tutti, continuerà negli anni successivi con armi diverse e sempre interrotto per le ferite di uno dei due, mai con la morte. A Lubecca nel 1806 sarà a cavallo e, tra i prati bagnati, D'Hubert trema dal freddo o dalla paura mentre Feraud si scaglia verso di lui.
Le campagne napoleoniche si susseguono senza sosta e i due avanzano di grado e continuano il loro duello ogni volta che i rispettivi reggimenti sono di stanza nella stessa città. D'Hubert ormai è disilluso dalla probabilità che Feraud possa accettare una riconciliazione e anche per lui incrociare le spade diventa una sorta di destino scritto, impossibile da cambiare fino alla fine di uno di due. Nella campagna di Russia del 1812 si trovano faccia a faccia mezzo assiderati tra i resti dell'armata napoleonica allo stremo, nel contrasto tra il biancore accecante della neve e il cielo plumbeo, e sarebbe ancora duello se non fossero interrotti dall'arrivo dei cosacchi.
Nel 1914, con Napoleone in esilio all'Elba, D'Hubert ha il grado di generale ed è in convalescenza a Tours ma rifiuta sagacemente di unirsi ai fedeli dell'imperatore che progetta il ritorno, mentre Feraud è in prima linea. Con la disfatta di Waterloo i destini sono al capolinea, mentre Armand è un ricco e stimato generale del Re con la giovane moglie incinta, Feraud è invece tra i fedeli di Bonaparte che sono sulla lista per il patibolo ma assurdamente D'Hubert interviene presso Fouchè per salvarlo. E così Feraud è al confino nella provincia francese, malridotto nel suo vecchio pastrano di guerra e cova il rancore per il successo del nemico, secondo lui un traditore degli ideali.
L'ultimo duello sarà alla pistola nella gelida alba della campagna attorno al castello di D'Hubert, tra le rovine diroccate, la rugiada che bagna i fili d'erba, i giochi di luce del sole che sta per sorgere e sarà quello definitivo.
Ridley Scott lo segue passo per passo con la camera a mano e sfrutta ogni stelo, ogni goccia, ogni raggio. Non sarà mai più capace di darmi emozioni del genere.
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