Il nuovo film di Ridley Scott, The Martian, ha rischiato di mandare nel panico chi aveva già timore di un'altra incursione nella fantascienza dopo lo scadente Prometheus, oltre che a fronte di un secondo prequel dell'indiscutibile Alien annunciato di recente (della serie: mungiamo la vacca finché è viva, e magari anche da morta). Eppure, almeno per questa volta, a mio avviso non c'è praticamente nulla che possa far alzare gli occhi al cielo o rotolare le gonadi giù in cantina: è un film di puro intrattenimento, si presenta come tale e raggiunge il proprio fine evitando supercazzole filosofiche/esistenziali e scivoloni nella retorica.

In realtà The Martian si presta più alla scienza che alla fantasia, ovvero è poco più vicino a un Gravity piuttosto che a un Interstellar (e per fortuna, aggiungo io), soprattutto adesso che, per una strana coincidenza, Marte è tornato sulla bocca di tutti grazie alle nuove sensazionali scoperte della Nasa, e lo sbarco dell'uomo sul pianeta rosso sembra sempre più vicino alla realtà (si parla del 2030 o giù di lì).

La vicenda del film, adattamento dell'omonimo romanzo di Andy Weir, è il classico caso di salvataggio in extremis: l'equipaggio di una missione su Marte si imbatte in una violenta tempesta; uno di loro, il botanico Mark Watney (Matt Damon), viene colpito dai detriti e dato per spacciato. La missione è subito abortita e gli altri ripartono per tornare sulla Terra. Ma Mark rinviene e, ritrovandosi solo soletto su un pianeta che definire inospitale è un eufemismo, si dovrà dare un gran da fare prima per assicurarsi la sopravvivenza a suon di patate, e poi per rimettersi in contatto con la Nasa.

Quella che dovrebbe essere a tutti gli effetti una premessa a dir poco angosciante in realtà viene affrontata con una bella dose di leggerezza: il nostro eroe Matt Damon, dall'ingegno portentoso, nonostante le insidie puntuali come un orologio svizzero non si perde d'animo neanche per un attimo, conservando anzi un senso dell'umorismo tutto americano nelle situazioni più estreme ed impensabili. La sceneggiatura è quindi simpatica e modesta a tratti, un po' fuori luogo in altri, dove la tensione non andrebbe stemperata; questo vale per gran parte del cast. Certo la colpa non è tutta di Ridley, impegnato solo a svolgere un lavoro pulito pulito alla camera, non di rado regalando scorci mozzafiato del paesaggio arido della Giordania.

Pochi insomma i momenti di riflessione sul valore dell'umanità o sulla solitudine di fronte allo spazio incommensurabile; considerato lo spessore del regista forse è meglio così, anche se a grandi linee potremmo cavarne fuori un messaggio di speranza (yawn...), un incredibile atto di amore (doppio yawn) per un singolo, insignificante individuo disperso nell'infinità del cosmo. Ma aldilà di ciò, il film nelle sue due ore abbondanti si svolge a mo' di videogioco survival, con parecchi colpi di scena, recuperi rocamboleschi, dirottamenti, genialate e cafonate, comunque senza sacrificare troppa credibilità scientifica (pare che la Nasa stessa abbia collaborato al progetto).

Va pure riconosciuto il merito di non essersi ingolfato nel becero patriottismo ammerigano, solitamente in casi del genere più prevedibile e fastidioso di un attacco di dissenteria durante un lungo viaggio in treno in pieno inverno. L'immagine degli USA qui non è poi così infallibile, come del resto quella della nostra civiltà, in preda a un'imbarazzante isteria da reality show una volta che Mark riesce a fissare una comunicazione stabile - non è ben chiaro se l'effetto voluto fosse proprio quello, ma se ne poteva fare anche a meno.

E quindi niente, non ci sperate più. Il vecchio Ridley (ormai prossimo all'ottantina) ha smesso di essere un regista rilevante parecchio tempo fa, e gli va a culo se di tanto in tanto, tra produzioni da fantasiliardi di dollari e ignobili polpettoni storici (ci tengo a sottolineare che mi voglio bene e non li ho visti tutti), gli salta fuori un filmetto dignitoso come questo.

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