Di origini giapponesi, ma naturalizzata inglese, Rina Sawayama si è imposta da qualche annetto come uno dei volti più interessanti di quel pop da classifica che non ha paura di flirtare con gli ambienti più indie e chic della scena britannica, in cui la scrittura di pezzi potenzialmente adatti alle radio e alle classifiche si accompagna a una costante ricerca visuale e a sperimentazioni che cercano di portare nelle suddette classifiche commistioni sonore e contenuti che, di norma, generalmente se ne tengono lontani. Il debutto di un paio d’anni fa, in questo senso, ne rappresenta il perfetto manifesto: basi dance, pop, R&B condite da innesti metal e orchestrali si intrecciano a riflessioni sulla percezione di sé e della propria appartenenza etnica, critiche al consumismo più sfrenato e inni alla libertà sessuale, il tutto strizzando l’occhio alle passerelle e agli stilisti più fighetti.
Il secondo album della cantautrice, “Hold the Girl”, da questo punto di vista non si sposta molto da quanto tracciato in precedenza, ma si fa carico di un’avvenuta maturazione in termini di scrittura e di padronanza delle sonorità utilizzate: affiancata da Paul Epworth e dal fidato Clarence Clarity, Sawayama affina ulteriormente il suo genre-bending, includendo nei suoi pezzi influenze da generi per lei nuovi e pronti a fare da base a testi introspettivi e mai banali. Ecco quindi che, dopo l’introduzione affidata alla chitarra di “Minor Feelings”, arrivano le percussioni tribali condite dall’orchestra della title-tack, il country a tinte queer di “This Hell” e “Send My Love to John”, l’ariosa cavalcata di “Catch Me in the Air” e la dance gotica impregnata di industrial di “Holy (Till You Let Me Go)”, senza dimenticare sprazzi di hyper-pop (“Imagining” e “Frankenstein”) e la bizzarria di “Your Age”, che tra banjo, rap e voci distorte è quanto di più vicino all’esordio si può trovare in questo disco. Il tutto è impreziosito da testi ben scritti, che si muovono bene tra lucide autoanalisi, riflessioni sulla propria sessualità e dialoghi con la se stessa più giovane. Peccato dunque che, come anche per l’omonimo debutto, Sawayama inciampi nuovamente a un passo dal confezionare un ottimo disco, anche se in questo caso le colpe sono più circoscritte e facilmente individuabili: sparse per la tracklist, sono infatti presenti diverse ballate che si rifanno a un rock melodico anni ’90 che ne minano la solidità; trattasi di pezzi che vorrebbero suonare cantati con il cuore in mano, ma finiscono per risultare solo pomposi e un po’ démodé. E se “Forgiveness”, con il suo andamento melodico volutamente sbilenco e i suoi innesti hard rock, risulta ancora gradevole, il trittico finale formato da “Hurricanes”, “Phantom” e “To Be Alive” si rivela sorprendentemente privo d’inventiva, quasi fosse stato inserito a forza in un contesto che non è il suo.
Peccato anche perché, tra contenuti di buon livello e una scrittura generalmente misurata anche nei suoi eccessi, Rina Sawayama non è certo priva di talento e di cose interessanti da dire e le va riconosciuto il merito di saper sempre tenere ben salde le redini di un progetto così variegato e potenzialmente dispersivo, ma la voglia di eclettismo e versatilità, che pur si giovano di scelte sonore ben padroneggiate, in questo caso ha portato anche a risultati controproducenti. Da questo punto di vista, la vera maturità ancora non è arrivata, e in fase di valutazione non si può non tenerne conto, fermo restando che i margini di miglioramento ci sono. Rimane però il dispiacere per un album che poteva essere di buonissimo livello, ma che non ci arriva per così poco e alla fine si presenta come un lavoro soltanto discreto.
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