Forse non gli inventori dell'emocore come li dipinge il tuttologo Piero Scaruffi, sta di fatto comunque che i Rites of Spring di Guy Picciotto siano stati sicuramente tra i primi ad aprire nuove, importanti strade all'hardcore punk dominante degli anni '80.

Il disco in questione unisce l'omonimo album d'esordio (1985) e l'ep "All Through A Life" (1987), per un totale di 17 scariche d'adrenalina in cui Picciotto si lacera le corde vocali pur di farci partecipi della sua angoscia, e ci accompagna in un uragano di rumore misto a melodia (in proporzioni inedite, per quei tempi) che mette a nudo non tanto i mali della società, quanto gli effetti distruttivi che questi hanno sull'uomo.

L'ottima caratura dei brani è una costante, si segnalano comunque l'iniziale, impetuosa Spring e l'incubo da inferi di Drink Deep, in cui la minor velocità è compensata abbondantemente da una profondità d'animo e da una sofferenza senza uguali.

Oltre al frontman troviamo Eddie Janney all'altra chitarra (ex Untouchables, Faith e Skewbald) e, alla sezione ritmica, Michael Fellows (basso) e Brendan Canty (batteria): proprio quest'ultimo confluirà assieme al leader nei ben più noti Fugazi (sempre siano lodati), i quali porteranno alle estreme conseguenze la rivoluzione in atto a Washington DC: laddove i Fugazi hanno plasmato a nuova forma la sintassi del genere, l'architettura stessa dell'hardcore punk, i Rites of Spring li hanno preceduti sul tempo iniziando ad ampliarne i mezzi, iniettando cioè nella loro musica dosi di pathos e disperazione fino a quel momento inimmaginabili.
Come vuole la prima legge (non scritta) della Dischord, i Rites of Spring sono durati soltanto un paio d'anni, sufficienti comunque a lasciare un segno indelebile negli ultimi 20 anni di storia del rock.

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