Bisogna tornare alla purezza del chicco di riso. (Pol Pot, fratello n° 1)
Solo consensi, invece, all'altro film in concorso del giorno, "La gente della risaia" di Rithy Panh: applausi compassati, del tipo che suggella i concerti noiosi. (Kezich Tullio, inviato dal Festival di Cannes - Pagina 33 (21 maggio 1994) - Corriere della Sera)
Yong Poew il capofamiglia. Yin Om la madre. Sette figlie, la loro è una famiglia contadina.
Il ciclo delle loro vite è scandito dal ciclo della coltivazione del riso.
Yong Poew muore, la moglie diviene pazza, ma la vita non aspetta, bisogna continuare a coltivare la risaia.
Rithy Panh, regista cambogiano, sopravvissuto ai campi di sterminio, rifugiatosi in Thailandia e poi a Parigi; racconta questa storia nel suo primo lungometraggio che è un film dolorosamente intimo ed allo stesso tempo estremo. Intimo nel mostrare lo svolgersi di questa vicenda quotidiana che a livello personale prende spunto dal ricordo della sua giovinezza, ed estremo perché nel susseguirsi delle vicende tragiche che colpiranno questa famiglia contadina ci sarà uno spostamento metaforico dalla storia piccola e ristretta di questo nucleo familiare alla più grande e complicata storia di un'intera nazione.
Alla base di tutta la poetica del regista infatti c'è l'idea di recupero della memoria perduta della sua nazione, da questa ricerca di conservare la memoria, quella propria personale e quella del suo popolo, nasce l'esigenza di questo film: "un film per ritrovarsi, per capire finalmente di avercela fatta a superare, almeno in parte, il trauma", verrà a dire in una delle sue tante interviste.
Tutto il film scorre attraverso due principali piani di lettura, il primo è quello della visione base e reale della storia, la vita quotidiana di una famiglia contadina; ma ogni passaggio della stessa può avere un doppio riferimento metaforico:
La morte del padre / la "morte" della vecchia concezione sociale, tradizionale, culturale della Cambogia.
La pazzia della madre / un popolo che viene a trovarsi senza punti di riferimento e si perde.
Il coraggio e dignità rare della figlia maggiore / il coraggio e dignità con i quali un popolo ha ricominciato a vivere (o sopravvivere).
Tutto ciò nel film è sostenuto da un perno centrale; il sogno del padre morente, dove per un attimo compaiono i Khmer Rossi, che in una antica profezia del Buddha i cambogiani individuano come i corvi neri.
Immaginandoci questa storia senza un riferimento temporale preciso, quel sogno potrebbe essere un ricordo del passato oppure un profezia, perché tutto ciò che concerne l'esistenza per i cambogiani è ciclico: la vita con le sue reincarnazioni, la coltivazione del riso, la pace e la guerra; tutto ciò che è successo succederà ancora.
Alla fine a noi resta un senso di solitudine morale, e idealmente ci ritroviamo come Yin Om, in mezzo ai campi di riso alla ricerca di figure immaginarie, come ancora tutta una generazione che ha vissuto gli anni della guerra e si ritrova persa a vagare in una nazione in continuo mutamento e sviluppo, ma senza aver ritrovato la sua memoria.
Preservare la memoria della Cambogia. Non si può ricostruire il paese senza ricreare una memoria, una cultura, basi di una propria identità. (Rithy Panh)
Il saggio sa che la vita non è che una fiammella scossa da un vento violento. (Scritta presente sull'architrave di una porta di Angkor)
Carico i commenti... con calma