Avevano detto che sarebbero tornati a qualcosa di più duro dopo anni di sonorità molto delicate, ma ci si domandava come, in che senso. Volevano forse soltanto riprendere quella componente metal che a fasi alterne caratterizzava la trilogia iniziale? O invece volevano fare il disco prog-metal alternativo e tamarro sullo stile del loro quarto lavoro? Beh questa seconda ipotesi mi sarebbe piaciuta, quel discorso non è stato portato avanti come avrebbe dovuto, però solitamente fa più onore guardare avanti che indietro… e infatti hanno guardato avanti. Il timore di una semplice operazione nostalgia c’era ma si è dissolto subito già con la pubblicazione dei primi singoli.

I Riverside stavolta prendono una strada coraggiosa, che può apparire ostica ma si rivela invece fluida ed accattivante, “ID.Entity” propone un più o meno strano “alternative hard prog”, una definizione che ho creato e affibbiato io così di getto ma che calza a pennello, vediamo pian piano cosa vuol dire.

Quindi nessun ritorno al metal (sempre che lo siano mai davvero stati), il sound prende invece una decisa piega hard rock. Un po’ Purple un po’ Sabbath, il nuovo chitarrista Maciej Meller sfodera chitarre rocciose, senz’altro un bel biglietto da visita, il tastierista Michal Lapaj punta molto su un corposo organo Hammond, mai così massiccio, il risultato è proprio il perfetto concentrato hard rock di matrice settantiana, chitarra e organo che si sostengono l’un l’altro e creano un suono robusto e massiccio. Non è esattamente una novità, già dieci anni addietro nell’album “Shrine of New Generation Slaves” c’erano dei begli episodi hard rock, ma qui hanno approfondito la cosa a dovere. Tuttavia stavolta non volevano che la cosa diventasse un tributo troppo spudorato o un mero esercizio di stile, così sporcano volutamente il tutto con suoni rugginosi, chitarre e bassi graffianti e riff leggermente claustrofobici che rimandano addirittura ai Tool; a volte abbiamo davvero l’impressione di sentire una sorta di Tool meno pronunciati e meno metal, dei Tool diluiti con l’organo, inutile dire che il risultato è stupefacente, il mix è coraggioso ed originale come dimostrano apertamente brani come “Post-Truth” e soprattutto “I’m Done With You”.

L’impronta prog in ogni caso non è in discussione, con brani che si articolano oltre il formato canzone e non mancano le moderate divagazioni strumentali. Merita di essere menzionato anche il lavoro al basso di Mariusz Duda, ho sempre apprezzato la sua particolare plettrata sempre molto ben funzionale e calata nel mood d’atmosfera dei Riverside, ma qui ha adottato uno stile più ossessivo e metallico che si sposa bene con la carica hard rock delle composizioni; la foga con cui martella le corde e traina il brano in “Landmine Blast” è incredibile; forse le migliori parti di basso di tutta la discografia?

L’originalità compositiva comunque non si manifesta solo in quel particolare mix di sonorità hard rock classiche e di spunti alternative, vi sono qua e là altre belle cosette insolite che inevitabilmente catturano l’attenzione di chi ascolta. A partire già dal brano di apertura “Friend or Foe?”, dove la band nella piena noncuranza di eventuali critiche si butta nel synth-pop anni ’80, sonorità che mai nessuno si sarebbe aspettato dai Riverside, e lo fa praticamente nella maniera più tradizionale; sembra davvero un brano realizzato in quell’epoca, lo si potrebbe tranquillamente attribuire ai vari Alphaville, A-ha o Ultravox, una rivisitazione sonora clamorosa ma i Riverside cercano comunque di svecchiarla mettendoci nel brano tutto quello che può servire a tal scopo, dagli inserti hard rock alle staffilate di basso. Piuttosto inatteso anche ciò che succede in “Self-Aware” dove la solita furia hard rock viene interrotta da bruschi stacchi reggae, si passa dai Deep Purple ai Police in un battibaleno, più o meno qualcosa di simile a ciò che succedeva in “The Spirit of Radio” dei Rush ma con un sound più duro, mentre nella lunga coda le ritmiche vagamente esotiche e tropicali si fondono con un’elettronica notturna e un’atmosfera quasi da film poliziesco. Totalmente inimmaginabile anche ciò che succede in “Big Tech Brother”, la lunga parte introduttiva a tema di ottoni li porta su territori caraibici che nulla hanno a che vedere con la natia Polonia, è praticamente una salsa in tempi dispari; peccato che il bello finisca lì, il resto del brano è decisamente meno interessante e non esprime il massimo del potenziale.

Il brano più classico e tradizionale è invece “The Place Where I Belong”, lunga composizione di 13 minuti che si focalizza sul lato più melodico e più prog dei Riverside (menzione per i ben tre assoli di organo), il lato probabilmente più apprezzato; non si rifà tanto ai primi Riverside con atmosfere pesanti ma attinge più da quelli ultra-delicati ad esempio di “Love, Fear and the Time Machine” o di diversi brani di “Shrine of New Generation Slaves”, è il brano che accontenta un po’ tutti, funziona bene ma ovviamente non è quello che suscita più curiosità.

L’edizione deluxe ha delle tracce bonus, due sono semplici single edit di “Friend or Foe?” e “Self-Aware”, ma ci sono anche due brani strumentali inediti; onestamente devo dire che non mi fanno impazzire più di tanto, paiono un tantino incompiuti e sembrano più che altro scritti per accontentare la vecchia guardia, probabilmente riuscendoci.

Personalmente considero “ID.Entity” uno dei due lavori più coraggiosi della discografia dei Riverside, l’altro era “Anno Domini High Definition” (ci sarebbe anche “Eye of the Soundscape” ma è fondamentalmente una raccolta di inediti); i lavori del decennio appena trascorso pur diversi da quelli della prima fase non avevano più di tanto quel coraggio di rottura totale e di cambio radicale, erano sempre più o meno intrappolati nel loro pacchetto di melodie delicate e malinconiche, il cambiamento avveniva a metà. Ora invece hanno avuto il coraggio di fare il passo azzardato e lo hanno fatto con gran stile. Un grande inizio per il 2023 prog.

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