Primo lavoro senza il chitarrista Piotr Grudziński, scomparso improvvisamente per un arresto cardiaco il 21 febbraio 2016, con la band che continua come trio con Mariusz Duda che si prende in carico le parti di chitarra. La band annunciava un sound più vicino alle origini e che sicuramente l’album avrebbe avuto toni più cupi. Wasteland, settimo lavoro in studio per la band polacca (se escludiamo “Eye of the Soundscape” che alla fine è a tutti gli effetti un album ma composto prevalentemente da materiale già proposto in passato a diverse riprese), è uscito così il 28 settembre 2018, ed era molto atteso probabilmente per la curiosità che premeva dentro i fan su come la band avrebbe reagito all’improvvisa scomparsa.

Alla fine possiamo dire che la reazione ottenuta è stata quella che ci si attendeva: un disco sicuramente oscuro. Di ritorno alle origini eviterei di parlare, non esageriamo; non ci troviamo di fronte i chitarroni di stampo metal rarefatto né gli assoloni corposi, ma nemmeno i tappeti di tastiere dal sapore ambient ossessivo che caratterizzavano i primi tre album; d’altronde non credo proprio che con “ritorno alle origini” i Riverside intendessero creare copie di quegli album. Tuttavia non è nemmeno il sound molto ammorbidito del precedente “Love, Fear and the Time Machine”. Le chitarre suonano a più riprese graffianti e ruvide, con un tocco quasi alternative che però non tocca mai il metal; metal che la band sembra aver definitivamente messo da parte dopo aver abusato del genere in quel “Anno Domini High Definition” del 2009 che per la prima volta divise i fan con quel suo prog-metal alternativo, frenetico ed elettronico (chissà se gli Haken nell’ultimo “Vector” hanno pensato a quel gioiello in fase di scrittura, visto che l’approccio sembra più o meno quello…); mi è capitato di sentir qualcuno affermare che la band non sembra essere molto a proprio agio quando si mette a suonare metal; io considero invece quel disco un discorso cominciato ma interrotto sul nascere e che meritava invece di essere approfondito. Ma spigoloso risulta anche il lavoro delle tastiere, specie negli inserti synth, pure un po’ in quelli di organo. Il sound è quindi corposo e leggermente tagliente ma mai metal. Di album oscuro invece si può parlare senza dubbio, anzi, stavolta sembra che sull’impronta dark la band abbia davvero calcato la mano; arpeggi e pennate acustiche ed elettriche dal sound volutamente spento e un Mariusz Duda che propende spesso a cantare su registri davvero sommessi anche se non proprio sussurrati; sembrano a più riprese gli Anathema più gotici di fine anni ‘90.

In poche parole un disco figlio della situazione che si era venuta a creare; i Riverside più oscuri e drammatici di sempre, fedeli a determinate caratteristiche ma mai fotocopia di loro stessi, pronti a ridisegnarsi senza stravolgersi. Effettivamente l’impressione che potrebbero osare di più c’è sempre, effettivamente le uniche due occasioni in cui non hanno davvero avuto paura di farlo sono state essenzialmente “Anno Domini High Definition”, che come dicevo poteva davvero inaugurare una nuova fase, e “Eye of the Soundscape” con il suo ambient elettronico e spregiudicato, ma perlomeno non propinano la stessa roba da anni e provano sempre a dare un’identità a ciascun nuovo lavoro.

Carico i commenti...  con calma