Come trovarsi in un deserto.
Dune di musica folk sabbiosa e sfuggente, un deserto di incertezza ed inquietudine senza oasi né miraggi, cotti dal sole cocente della paranoia. Senza neppure più la ragione a far da bussola. Come trovarsi nella tundra. Luce fredda e tagliente, note che attecchiscono nel cuore lentamente, come licheni, e che poi ti si attaccano dentro senza più lasciarti.
C'è Nathan Amundson dietro al moniker Rivulets. Spirito grande e gelido come l'Alaska che ha fatto da teatro alla sua infanzia. Anima inquieta e vacillante nelle sabbie mobili dell'alcol e dalla paura. Come questo album. Che al primo ascolto ti può non piacere. Ma che poi lentamente ti invade in maniera sottile ed intrigante, ti serpeggia dentro come una brutta sensazione nello stomaco a cui non sai dare né un nome né un perché. È come se in questa musica ci sentissi qualcosa di sbagliato. Poi a un certo punto afferri le farfalle di mistero e di inutilità che aleggiano su questi fiori musicali, e allora capisci la lotta, il lavorìo musicale e umano che c'è dietro questi undici brani folk, fatti e sbriciolati in una voce tremante e ovattata. E allora la accetti e la fai tua, questa musica, anche se continui a sentirci dentro qualcosa di infetto, seppure incredibilmente vivo.
Non è certo un caso che quest'album si intitoli così, chirurgicamente, "Debridement". È uno "sbrindellare" da chirurgo, come liberare una ferita da qualcosa che la infetta nel profondo, come purgare un ascesso di sofferenza dall'anima. Un ascesso che preme ed infiltra la vita di ogni giorno. Creare vuoti per poi costrurci qualcosa dentro. I vuoti. Quanti sono, in questo album. Le sonorità, innanzitutto. Il vuoto e gli echi della Cattedrale del Sacro Cuore di Duluth, nel Minnesota, sono forse gli "strumenti" che risuonano di più in questi brani. E quella sensazione di inquietudine triturante che ti attanaglia sin dalla brevissima opener "An Evil". Quarantadue secondi di canto a cappella, dove c'è solo la voce bambina di Nathan che avverte ossessiva nel vuoto della chiesa che "There's an evil in this room". C'è un cattivo in questa stanza, c'è un cattivo in questa stanza... E suona inquietante come una minaccia, come un dito puntato, un "uomo avvisato...". Ma questa stanza è una chiesa e Nathan è già come avvolto da una tremolante aura di sfida, da avversario, un contrasto da brividi creato così, in soli quarantadue secondi. Atmosfera così quietamente tesa, uno spasmo che ti blocca in un riso sardonico nella successiva "Cutter". Aperta da uno spilucchìo acustico delle chitarre, rinforzata dal banjo, la voce di Nathan è una piuma che si culla sul mare del niente. Per allontanarsi nel silenzio di un'anima che sembra già non avere più nulla da dire, nel vuoto che risucchia.
È vertiginosa la toccante "Conversation With a Half-Empty Bottle" dove ricompare il tema della dipendenza e del pessimismo. La bottiglia da scolare come un tempo che non passa. E che è sempre mezza vuota. C'è solo una chitarra che picchia in minore, qui. E quella lotta al vizio e a quella sete di autodistruzione che aveva già preso corpo nei precedenti "Alcohol EPs". Una sete insana che fluttua sugli echi della chitarra nella cattedrale, che solo la voce eterea e filiforme di Jessica Bailiff può addolcire con tutto il suo carico salvifico di femminilità in "Shakes". Se è dolce e minimale "Steamed Glass", le fa da contraltare un incubo musicale come "If It Is", con le sue percussioni, i suoi fischi, le sue panche scricchiolanti nella chiesa. Ma è nelle sonorità soffocate e quasi organistiche di "The Sunsets Can be Beautiful (Even in Chicago)" che il pensiero si perde, sino al nichilismo minimale delle altre tracce.
E sei nella tundra dell'anima e nel tempio della inquietudine dell'uomo moderno.
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