Introduzione:
Questo chitarrista e cantante californiano, ormai alle soglie dei settant’anni splendidamente portati, ha prodotto una grande quantità di dischi, suddivisi grosso modo in due tipologie principali.
La prima di esse flirta decisamente col rhythm & blues, quasi con il pop; brani molto cantati ed arrangiati (fiati, archi ecc.), con l’obbligatorio solo di chitarra presente si, ma sintetico e “semplice”, otto/sedici batture pressoché pentatoniche, scorrevoli, e via subito a riprendere strofe e ritornelli.
La seconda gamma dei suoi lavori è invece più “musicale”, ricercata e relativamente difficile all’ascolto, più jazz, più asciutta, con Robben affiancato solo dall’essenziale (basso/batteria e, volendo, un filino di organo Hammond o di piano elettrico). La sua chitarra è costantemente in primissimo piano, gli assoli sono sovente lunghi e articolati, col nostro che prende a beboppare spesso e volentieri, mettendo a frutto le giovanili lezioni di sassofono e piegando anche i suoi cantati alla legge del jazz, rendendoli molto mobili ed espressivi.
Contesto:
Personalmente, da musicista a mia volta seppure dilettante, preferisco di gran lunga i suoi album più jazz/rock/fusion. E’ che quelli più “commerciali” mi suonano abbastanza anonimi e un po’ troppo tranquilli… Ford è sempre professionalissimo ma anche a mettere insieme canzonette rhythm & blues, però esse non “bucano” l’immaginario collettivo, mentre quando scava a fondo nella sua tecnica e mette in gioco tutta la sua destrezza, vengono fuori le sue doti peculiari di grandissimo chitarrista jazz-blues, il suo fraseggio imprevedibile e ardito, i suoi fuori-scala sorprendenti ed eleganti, il tocco educatissimo e personale, le capacità melodiche e così i seri cultori di musica ben fatta raddrizzano le orecchie e gradiscono.
Il disco in recensione appartiene ovviamente alla “seconda gamma” accennata sopra. Siamo nel 2007 e Robben, saltabeccando fra un paio di studi californiani ed uno newyorkese, tira fuori undici pezzi di squisito, moderato ma ficcante blues costantemente venato di jazz e talvolta rassodato dal rock. Gli accompagnatori cambiano a seconda dello studio di registrazione, mentre le ospitate si limitano ad un cameo di Susan Tedeschi (moglie di Derek Trucks, altro chitarrista paurosamente dotato, ex- Allman Brothers) che duetta col titolare in un’unica occasione.
Punti di forza e lacune:
Ford ha un punto a favore rispetto alla miriade di bravi chitarristi che costellano il firmamento musicale: una gran bella voce. Molto mobile e soprattutto chiara e… gaia, cosicché il suo blues non è mai malinconico e men che meno triste. Cogli anni l’ha ancora migliorata, ed è un piacere cogliere le tante, espressive sfumature che riesce a spargere nei suoi cantati, non particolarmente geniali a livello di trovate melodiche ma sempre incisivi e solo sporadicamente immemorabili.
Certo, questa è musica “adulta”. Non vi sono eccessi, non vi sono messaggi, non vi sono sofferenze o entusiasmi da comunicare. Le liriche sono le solite standard, asservite più che altro a far lavorare lo strumento voce. Nessun frastuono, nessun esperimento: è musica “appoggiata” e fluida, eseguita alla perfezione da musicisti maturi ed esperti. Difficile che faccia presa sui cosiddetti ggiovani… è diretta piuttosto ad un élite di veri appassionati di musica, anche se il suo aspetto moderato ed equilibrato può farla ascoltare da chiunque.
Vertici dell’album:
“Nobody’s Fault But Mine” non è quella dei Led Zeppelin ci mancherebbe, bensì l’altra, più vecchia, di Otis Redding. E’ rinforzata da un paio di fiati e suona più “pesante” della media del disco. Peccato che si dissolva ben presto, prendendo a sfumare quando l’artista ancora ci sta dando dentro sulle sei corde…
“Riley B. King” è una ballata rhythm & blues rotonda, cadenzata, squisitamente cantata. La chitarra è pulita e squillante, con un suono sontuoso grazie alle mani d’oro del musicista, nonché ai costosissimi amplificatori artigianali Dumble, una sciccheria, che è uso ad adoperare.
Niente di meno che inappuntabile “You’re Gonna Need a Friend”, arricchita dai gorgoglii dell’organo Hammond e da un paio di vivaci coriste.
“One Man’s Ceiling Is Another Man’s Floor” è proprio quella di Paul Simon (album “There Goes Rhymin’…” del 1973). Dalla seconda strofa il canto passa al bel contralto di Susan Tedeschi. Come accade quasi sempre con Simon, la composizione è deliziosa, a cominciare dal titolo. Ford vi aggiunge un paio di assoletti stavolta abbastanza pentatonici e lineari, alla Clapton si potrebbe dire.
La conclusiva “Moonchild Blues” è un blues semi lento completamente ortodosso, scaldato dai fiati e dal superbo woman tone della chitarra, un vero secondo canto nella canzone. Tutto brodo riscaldato se si vuole, ma il sapore è più che mai delizioso: vecchia musica americana immortale.
Il resto:
L’apripista ”Lateral Climb” è uno shuffle molto ortodosso, quattro righe di testo e via libera alla chitarra, altre quattro e ancora e sempre chitarra, alle prese con un’improvvisazione blues episodicamente beboppata. Un inizio non particolarmente dotato di personalità.
La successiva “How Deep in the Blues” è un rhythm & blues monocorde nelle strofe e poi riccamente armonizzato nei ritornelli. Splende più che mai il fraseggio chitarristico di Robben, ogni tanto spinto fuori scala come sa fare soltanto chi ha studiato e suonato a lungo il jazz (e lui l’ha fatto anche con Miles Davis, la serie A insomma).
“Too Much” è dominata da un riff roccioso e solido. Siamo in territorio rock blues sessantiano. La chitarra abbaia, l’Hammond latra, la batteria mena nei piatti… è il lato più hard (si fa per dire) di Robben.
“Peace on My Mind” non riserva sorprese, salvo la classe immensa con la quale tutti i musicisti tengono il mid-tempo molto cadenzato. Ford lascia la ritmica essenzialmente al suo pianista, riservandosi continui fills intorno alla sua voce nonché i soliti assoli rilassati e ficcanti, intercalati da sapienti sincopi e altrettanto prelibate gragnuole di note talvolta in scale astruse.
Senza particolari eccellenze anche “There’s Never Be Another You”, un po’ troppo telefonata melodicamente, ma l’assolo è eccellente.
La penultima traccia “River of Soul” è molto… californiana. Robben sfoggia la sua voce più vellutata e rotonda, che pare Christopher Cross. Il timbro nasale della chitarra pare quello di Lee Ritenour… qui si sfiorano gli Steely Dan.
Giudizio finale:
Quattro stellette non si possono negare, Robben Ford è un grande. Difficile appassionarsi a fondo di lui, ma impossibile non godere della sua musica, del suo estro, della sua giustezza. Musica non entusiasmante ma… accogliente. Anche sexy, nel caso qualcuno che legge avesse l’abitudine di mettere sottofondi sonori alle sue pratiche goduriose con l’altro sesso.
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