Tanta bella gente bazzica nei paraggi di Nashville (TN)...
C'è Haven Hamilton, redneck ai limiti della macchietta, che non fa politica in quanto "sostiene tutti i partiti"; fiero del Suo Tennessee tanto da farlo esclamare con furore "We're not in Texas! We're in Tennessee!", come Lady Pearl è fiera della propria confessione cattolica, la stessa di JFK, amato, rimpianto, amaramente decantato. E il figlio Buddy, mammone sottomesso, prototipo dei futuri "american idiots". Poi c'è John Triplette, white collar dei più stronzi e meschini, con un nome che è tutto un programma, capace com'è stato di metterla nel culo tre volte (a Barbara, a Tom, a Sue).
Barbara Jean, simbolo vivente del malessere e della nevrosi, perennemente sull'orlo del collasso, iconograficamente una Madonna: la sua Passione è esattamente quella degli ideali USA tramontati. E il suo moroso-manager Barnett, che farebbe qualsiasi cosa per lei, anche trattare coi peggior paraculo: verrà incastrato da Triplette. Divide la sua devozione per Barbara con un anonimo soldatino che la segue dappertutto, individuandone un faro di grazia dopo gli orrori del Vietnam. Poi c'è Del Reese, pater familias così preso a raccattare consensi e adesioni al Replacement Party da non accorgersi che sua moglie Donna se la fa col belloccio di turno, il cantante Tom Frank, falso come Giuda, sia come musicista (un finto-rocker finto-sinistrorso, in realtà "arrendevole" al country più patetico e reazionario) sia come uomo (pluri-seduttore maschilista, col broncio da "bel tenebroso" e il fallo sempre nella stessa direzione). Si è fatto anche Opal, cinica e velleitaria giornalista, sempre pronta a mettere il suo ego al centro dei suoi stucchevoli reports sul mal d'America. Anche i neri escono malissimo: Tommy Brown, il "negro piu bianco dei bianchi", penoso nei panni di un bronco-billy tirato fuori a forza dal ghetto per far vedere a tutti che il Sud non è razzista.
Su tutti e su tutto, Phillip Walker, la sua voce, le sue idee, la sua terribile visione degli States del futuro (quelli di Bush Jr).
C'è anche Elliott Gould. E c'è Connie White, che non attende altro che l'ultimo respiro di Barbara Jean. C'è poi un brav'uomo, di una certa età, con la moglie gravemente malata, l'affittuario con la custodia del violino misteriosamente sempre serrata e la nipote Martha, aspirante starlette, come tanta altra fauna roteante attorno al carrozzone del Bicentenario; come Sueleen Gay, rossa da urlo e voce da chioccia, umiliata ma felice di esibirsi al Partenone nel Grande Giorno, quello in cui l'America piomba nuovamente nell'Incubo, per poi rialzare prontamente la testa nella maniera più epica e commovente: è la buffa Albuquerque a far andare avanti lo spettacolo, a forza di stecche meravigliose; è lei che provvede a restituire, in cinque indimenticabili minuti, le emozioni trattenute dal gelido Altman per quasi tre ore di film; è grazie alla sua forza che la gente americana, le famiglie, i bambini diventano finalmente protagonisti di un film senza protagonisti e si fanno carico della sopravvivenza della Grande Nazione nei tempi a venire.
Il finale di Nashville rimane uno dei momenti artisticamente e concettualmente più alti della Settima Arte: da quella tragedia esorcizzata dalle familiari e calde note del vecchio country, da quella bionda scapigliata che nel suo numero insperato e improvvisato pare sobbarcarsi il trauma di un intero popolo, da quella folla indistinta che canta "It don't worry me" passano momenti di lucida sociologia e amara poesia.
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