Contiene accenni di spoiler.

Torno a scrivere su Debaser a distanza di innumerevoli anni per esprimere le mie impressioni dopo la visione (in lingua originale) di The Northman, terza fatica da regista dello statunitense Robert Eggers. Lo faccio perchè mi sembra che si stia producendo, un po' come per Nolan, la schiera dei fans "eggersiani" per cui i film del giovane Eggers sono tutti capolavori (un giorno bisognerà pur parlare dell'abuso del termine), spesso persone che hanno una scarsa cultura cinematografica e da cui ti senti dire «si vedeva già dal trailer che sarebbe stato un capolavoro» (giuro, sentito l'altro giorno a Roma poco dopo la proiezione). E allora, dato che il film mi ha in gran parte deluso per quelle che erano le aspettative, ho deciso di ributtarmi sul caro vecchio Debaser.

Direi di partire da ciò che funziona del film e per farlo bisogna tirare in ballo una delle (altre) parole ormai stra-abusate del linguaggio cinematografico, e cioè "immersivo". Tutto si può dire dell'ultimo film di Eggers tranne che non sia un'opera in grado di immergerti nella sua atmosfera, che ti avvolge e ammalia con un tappeto sonoro persistente e ossessivamente accattivante e che riesce ad adagiarsi su di una fotografia in grado di far rivivere, sia pure sul grande schermo, quei mondi che sembrano così lontani dall'oggi. L'impatto visivo è nel complesso notevole, ma forse un giorno Eggers ci dirà perchè quelle desaturazioni in alcune scene notturne che cozzano paurosamente con la ricerca del realismo tanto nelle scene in esterni che nelle (rare) scene di interni.

Altra nota di merito riguarda la ricostruzione storica: lo avevamo già visto in The Vvitch e in The Lighthouse e qui lo vediamo riconfermato. Eggers, come detto in diverse interviste, ama andare alla fonti originarie, fare lavoro d'archivio (cosa che da laureato in storia non posso che apprezzare) e donare alle sue pellicole il massimo della verosomiglianza si possa portare sul grande schermo. In The Northman il cineasta fa lo stesso grande lavoro storico/filologico, partendo dall'Amleth dello storico medievale Saxo Grammaticus per rielaborare l'immaginario norreno: nel film i rimandi alle tradizioni (canti e balli), ai miti e alla religione (gli innumerevoli riferimenti agli dei e alle pratiche rituali pagan-sciamaniche) sono palesi ed innumerevoli e, fatta eccezione per quella che è già una scena famosa (rutti e scorregge), anche di notevole fascino.

Se il film è innegabilmente capace di catturare lo spettatore nelle sue atmosfere e nel mondo che riesce in gran parte a ri-costruire (va detto, Eggers non crea ma ri-crea qualcosa che prende a piene mani dal Valhalla Rising di Refn a Conan il barbaro e via discorrendo), il problema emerge nel momento in cui Eggers deve narrare. La sceneggiatura è stata scritta a quattro mani insieme allo scrittore islandese Sjón ma ciò che appare chiaro fin da subito è che questa ha pochissimo spazio di manovra: dopo i primi 15 minuti lo spettatore già sa che dovrà attendere gli ultimi 10 per una risoluzione finale tanto attesa quanto prevedibile. In mezzo c'è un racconto banale, si può anche dirlo, in cui si susseguono un insieme di "tappe" che sembrano essere le "quest" di un videogioco a tema: l'incontro con la sciamana-apparizione Bjork (non poco didascalico), il trovare la spada magica (naturalmente dopo scontro con il boss), il gioco che permette di elevarsi dallo status di schiavo (una sorta di quidditch norreno) e poi le varie vendette fino alla risoluzione finale. Non ci si fanno troppi problemi di originalità nel cinema del 2022 ma è impossibile non notare come i personaggi di Eggers (limite già emerso nel comunque più riuscito The Lighthouse) siano spesso degli automi privi di reale profondità psicologica e di spessore filmico: in questo caso agiscono quasi per inerzia fatale, soggiogati dalle forze divine che hanno già rivelato e imposto (d'altronde non si può scappare al proprio destino). Certo è interessante il discorso sulla fallibilità umana e sulla cieca e distruttiva credenza nella superstizione (anche questo, tema già ampiamente emerso nei due film precedenti di Eggers) ma se in The Vvitch questa tensione espressiva e thrilling si creava con la scrittura dei personaggi, in The Northman è totalmente annullata dalla preponderanza attribuita all'elemento divino: gli esseri umani sono ingranaggi subordinati di un sistema altro e non tangibile. Agiscono e basta. Anche quando si tenta il mezzo colpo di scena questo viene annullato dopo pochi minuti. In questo c'è la poetica di Eggers o anche (e soprattutto) la necessità di banalizzare il discorso e il racconto per arrivare ad un pubblico più ampio con un'opera che alla fine è costata 90 milioni di dollari? Il dubbio resterà amletico. Così come c'è da sperare che quel duello finale, così alla 300 e così poco eggersiano, non sia il frutto dello stesso regista ma delle imposizioni della produzione (si legge che il film è stato tagliato di una mezz'ora e ampiamente rivisto per volontà dei produttori).

Lo so, sono già andato lunghissimo ma c'è un ultimo aspetto del film che merita di essere quantomeno citato: Eggers è un regista dalla mano notevole e lo si era già visto nei suoi due lavori precedenti. Quello che però riemerge (per chi scrive già presente in The Lighthouse) è una certa esibizione registica che si muove fuori dalle dinamiche del racconto. Mi spiego meglio: Eggers opta sovente per dei movimenti di macchina molto complessi (qui abbondano piani sequenza in movimento) anche quando non sarebbero necessari e che soprattutto appaiono forzati e avulsi dal racconto. Un esempio su tutti, ma altri se ne potrebbero fare (e capisco che siamo nella pedanteria, ma l'occhio allenato ci fa caso a queste cose): all'inizio di uno degli atti in cui è diviso il film vediamo l'inquadratura fissa di un fiume. Poi da sinistra entra in scena una barca e la macchina da presa fa un brusco movimento in avanti, poi si alza, poi si riabbassa per approdare sull'imbarcazione, poi inizia un lento movimento in avanti per scartare infine a destra e giungere ad un primo piano del nostro gigantesco Amleth (Alexander Skarsgård): sono 40 secondi in cui lo spettatore subisce una scelta registica di ostentazione poco amalgamata con il racconto. Come se Eggers, al di là di certi veloci giudizi sulla sua breve carriera, sia ancora alla ricerca della costruzione del suo cinema, dell'equilibrio tra creazione delle immagini (e loro funzionalità) e dinamica del racconto.

Ci sarebbero moltissime altre cose da dire: dal ruolo potenzialmente molto interessante di Olga (Anya Taylor-Joy) subito subordinato a love object del protagonista, alla scelta di far parlare gli attori con un inglese masticato e difforme, dalla prova attoriale sorprendente di Claes Bang nei panni di Fjölnir (il migliore del cast), alla resa bruttina degli effetti speciali. Ma meglio evitare il giudizio di Odino. Quindi mi taccio.

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